Gli anni che vanno dal 1806 al 1808 risultano essere tra i più floridi della produzione beethoveniana. In questo breve lasso di tempo presero infatti vita il quarto Concerto per pianoforte e orchestra in sol maggiore op. 58, i tre celeberrimi Quartetti “Razumovsky” op. 59, la quarta Sinfonia in si bemolle maggiore op. 60 ed infine il Concerto per violino e orchestra in re maggiore op. 61. Quest’ultimo non godette di grande favore da parte del pubblico, venendo giudicato, dalla critica dell’epoca, sconnesso nelle sue parti e talvolta eccessivo nella ridondanza dei suoi vari elementi compositivi. Di sicuro la prima esecuzione pubblica, avvenuta il 23 dicembre del 1806 a Vienna, ad opera del virtuoso violinista Franz Clement non aiutò l’ascesa dell’opera a rango di capolavoro. Si racconta infatti che al termine del secondo movimento il solista avrebbe smesso di suonare il concerto per dedicarsi all’esecuzione di un intermezzo virtuosistico di sua composizione, di fatto pregiudicando la buona riuscita del brano. Bisognerà attendere fino al 1844 quando un giovanissimo Joseph Joachim sotto la direzione di Felix Mendelssohn, che tanto teneva in considerazione il maestro di Bonn da dedicargli, alla sua morte, il suo secondo Quartetto per archi in la minore op.13, riabiliterà il Concerto, riportandolo nella sua giusta collocazione tra le più importanti opere per violino e orchestra. L’opera presenta un carattere particolare, distante dalla tradizionale struttura concertistica dell’epoca dove solista ed orchestra non godevano di un rapporto paritario. Il magistero compositivo di Beethoven sta proprio nel raggiungimento di un perfetto equilibrio tra le sonorità orchestrali delle varie sezioni e la voce del violino che, pur vantando una propria distinta personalità, non manca mai di rispetto al discorso musicale sfruttando il virtuosismo tecnico non in funzione di un mero atto autocelebrativo ma come ricerca per il raggiungimento di una delicata armonia sonora con il resto dell’orchestra. Tale intento appare evidente fin dal primo movimento, in forma sonata, la cui introduzione è affidata ad un inciso ritmico di quattro note, ad opera dei timpani, che fungerà da collante tematico per i vari episodi successivi. Tale inciso, ripreso dagli archi a seguito del primo tema esposto dai fiati, porta il discorso verso un crescendo di intensità che, raggiunto il suo culmine con violenti accordi di stile tipicamente beethoveniano, sfocia infine in un secondo tema sempre ad opera dei fiati e subito riproposto dagli archi in re minore. Segue un momento di calma riflessiva che porta ad un epilogo gioioso ed energico interrotto solamente per far spazio all’elegante ingresso del violino solista che, dopo un’affermazione palese della propria identità, riprende il materiale tematico e lo ripropone esplorando tutte le possibilità timbriche dello strumento, alternando momenti di puro lirismo espositivo ad altri più intimi e contemplativi. Il movimento si conclude a seguito di una libera cadenza del violino che dopo aver ripreso sommessamente il tema principale lo passa ai fagotti, per terminare il movimento con energico slancio ed entusiasmo. I due movimenti seguenti si presentano con un profilo più classicheggiante. Il Larghetto, scritto sotto forma di tema e variazioni, richiama all’idea di un canto spirituale. Il materiale tematico presentato viene ripreso ed abbellito dal solista che assieme all’orchestra lo sviluppa fino al raggiungimento di una pacifica armonia. Da questo momento di calma parte infine l’introduzione del violino al Rondò finale dove un dialogo frizzante e serrato tra il solista ed il resto della compagine orchestrale, sorretto da scelte timbriche brillanti e scattanti, porta il brano ad una gioiosa conclusione.
Da poco terminata la terza Sinfonia “Eroica” nel 1804, Beethoven si lanciò immediatamente nella stesura di una nuova opera sinfonica; quella che sarebbe in seguito divenuta la quinta Sinfonia. Tuttavia il completamento del brano si rivelò più arduo del previsto tanto che vide la luce solamente quattro anni più tardi. Tali difficoltà apparvero evidenti nel 1806 quando Beethoven, in occasione di una visita presso il Conte Franz von Oppersdorff, assistette all’esecuzione della seconda Sinfonia ad opera dell’orchestra privata del conte, il quale chiese al compositore la realizzazione di un nuovo brano da far eseguire alla medesima compagine. Beethoven acconsentì e inizialmente pensò di dedicare al conte la futura “quinta” ma le difficoltà citate precedentemente lo indussero infine ad optare per la realizzazione di una sinfonia totalmente nuova. Fu così che nacque la “quarta”. Scritta in un brevissimo lasso di tempo (la prima esecuzione avvenne a Vienna nel 1807), l'op. 60 presenta all’apparenza una forma ed un carattere più semplici rispetto alla precedente "terza" ed alla successiva "quinta", tant’è che Schumann la definì, “una slanciata fanciulla greca tra due giganti nordici”. Tuttavia, laddove in un primo momento si potrebbe intravedere, nelle scelte stilistiche e di forma, una sorta di ritorno ad un mondo più classicheggiante, ad uno sguardo più attento si può notare una ricerca nelle scelte timbriche e dell’equilibrio sonoro figlia delle sperimentazioni attuate in quegli anni. Tale intento appare chiaro nell’Adagiointroduttivo del primo movimento. Di carattere fortemente meditativo, esso fa dubitare l’ascoltatore, creando un clima teso ed inquieto fino ad un piccolo crescendo, preludio per una serie di episodi affermativi che aprono le porte all’allegro e gioioso motivo primario caratterizzato da note staccate sulle quali vengono sviluppate melodie ed idee accessorie. Nella sezione centrale appare un’idea nuova dal carattere dilemmatico, la scrittura si fa più essenziale e trascina l’ascoltatore verso misteriose evoluzioni per poi far ritorno alla spensieratezza del tema iniziale che conclude il movimento. Più difficile da inquadrare risulta l’Adagio, definito da Richard Strauss “prezioso”. Un sommesso inciso ritmico apre il movimento, costruendo una stabile struttura per le linee melodiche principali dal carattere serafico e contemplativo. Questa apparente contrapposizione tra razionalità ed espressività trova la sua ragion d’essere nel momento in cui l’architettura ritmica e la melodia si fondono in un maestoso impeto sonoro, che dona intensità all’intero movimento. Lo Scherzo, classicamente beethoveniano propone frasi in tempo binario collocate nella struttura ternaria del movimento, volte a dare incisività e slancio al brano. Più tranquilla la melodia proposta dai fiati nel Trio, ravvivata spesso dai guizzi dei violini. Il virtuosistico Finalemette alla prova ogni gruppo strumentale (significativo in tal senso un delicato passaggio riservato al fagotto). Sequenze di miriadi di note, talvolta interrotte da violenti accordi, instaurano un fitto dialogo tra le varie sezioni per giungere, infine, ad un ironico preambolo per un finale gioioso.