Franz Schubert (1797-1828)
Sonata per Pianoforte in La minore, n. 14, D784
GUIDA ALL'ASCOLTO CONCERTO N° 1471 AARON PILSAN
George Enescu (1881-1955)
Rapsodie Rumene n. 1 in La maggiore
Robert Schumann (1810-1856)
Arabeske in Do maggiore op. 18
Robert Schumann (1810-1856)
Studi Sinfonici in Do diesis minore, op. 13
NOTE DI SALA
Seguiamo il filo del programma, come fosse un dialogo con noi, noi pubblico. E partiamo da quella Sonata che spesso, ed erroneamente, viene indicata come op. 143 (numero del tutto spurio, attribuitole in occasione della pubblicazione postuma, nel 1839), nella cupa tonalità di la minore che per Schubert era la tonalità del «Fato»: una riflessione musicale che sembra provenire da una forte crisi esistenziale, dovuta verosimilmente alla diagnosi (seguita ai primi sintomi) della malattia venerea che l'avrebbe condotto a morte prematura di lì a cinque anni. Contemporanea a questo lavoro è in effetti una rivelatrice poesia del compositore, intitolata Mein Gebot (La mia preghiera), che pare proprio la traduzione verbale di quanto espresso in note musicali: «Guarda, in frantumi nella polvere / in preda ad un terribile dolore / giace la mia torturata esistenza / prossima all'eterna distruzione».
E che la morte sia presente lo si percepisce fin dall’inizio, non tanto nel desolato motivo principale dell'Allegro giusto (da intendere più come indicazione agogica che come valutazione umorale), ma proprio dalle due note in ritmo trocaico che concludono ciascuno dei quattro incisi di cui si compone il primo gruppo tematico: quel passo pesante, incombente, conquista gradualmente il motivo secondario (costituendone anche l'accompagnamento), deflagra nella sezione di transizione e solo temporaneamente viene messo a tacere dall'incantevole secondo tema, vera e propria eco di un paradiso perduto. Nello sviluppo del primo movimento il progressivo estendersi di questo ferale ritmo viene contenuto dalla riproposizione dello schema ritmico del secondo tema che poi, nella ripresa, svetta estatico, riservando all’ascoltatore, proprio a ridosso della coda, un colpo di scena, con la conclusione inaspettata in La maggiore.
L’Andante, in Fa maggiore, è un corale armonizzato, costantemente interrotto da una cellula tematica contrastante per la quale Schubert, per darle maggior rilievo, prescrive l'uso di un pedale, il "sordino", che non viene più montato sui pianoforti moderni. Questo pedale (tipicamente timbrico, perché soffoca in parte la vibrazione del suono), sembra quasi schiudere una prospettiva inedita del suono nello spazio – come fosse quello di un’orchestra dietro le quinte – che fa della tastiera un luogo teatrale, un laboratorio sonoro su più piani. Elemento non secondario questo, che consente di situare la Sonata in un alveo di ricerca drammaturgica, quasi fosse un cartone di studio per situazioni teatrali (ipotesi confermata dal fatto che è collocata tra le opere Alfonso und Estrella e Fierabras).
Ed il livido finale – concitato, spettrale perpetuum mobile in rapide terzine cui si contrappone un delicato ed implorante motivo, inconciliabile, estraneo – sembra confermare questo gioco teatrale in cui l’avvicendarsi dei blocchi tematici, in forma di rondò, suggerisce una disperata, folle danza sull’orlo del nulla.
Ed è proprio la danza, quasi a stemperare quest’atmosfera, ad essere protagonista del secondo lavoro in programma, la prima Rapsodia rumena di Enescu. Benché il compositore la ritenesse una «semplice sequenza di motivi legati senza averci nemmeno pensato su», l’analisi degli appunti preparatori per questa pagina (che nasce come opera sinfonica) rivela la meticolosa cura con la quale le melodie tradizionali sono state accuratamente elaborate. Da un 19enne, peraltro, ancora alle prime armi come strumentatore e compositore. Completata il 14 agosto 1901 (e trascritta dall’autore stesso nel 1948 per pianoforte solo e per violino e pianoforte), è un lavoro che ribolle di vitalità popolare. Si apre con la citazione di Am un leu şi vreau să-l beau (Voglio spendere i miei soldi – leu – nel bere) che il violinista rumeno Lae Chioru, dal quale Enescu aveva ricevuto le sue prime lezioni di violino all’età di 4 anni, suonava spesso, per poi dar vita a quel gioco di accelerando e ritardando che è così tipico della musica della Transilvania: ad un tema dolce ed espressivo segue un motivo Plus vite che poi diventa Très vif e che accelera spietatamente sino al culmine di maggiore virtuosismo che fa letteralmente esplodere questa esaltante pagine in un travolgente crescendo finale.
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Tutta schumanniana la seconda parte di questo dialogo sonoro. Si apre con Arabeske, op. 18 (1838), spietatamente definita dall’autore come «debole e per signore». Non difficile da eseguire, è però un lavoro elegante e di sicuro effetto: formalmente un rondò con un tema principale dal ritmo sempre identico, tutto giocato sulla morbida concatenazione di accordi. Uno dei brani nei quali è possibile cogliere più a fondo la particolarità e l'originalità dell'ispirazione di Schumann: l'arabesco, la decorazione libera ed impalpabile che trova vita nell'ispirazione breve e visionaria. Successione di frammenti lievi e fantastici, coronati dalla straordinaria pagina conclusiva alla quale il compositore premette le parole Zum Schluss (per finire): istante trasognato e poetico nel quale la scrittura pianistica diventa arpeggio ed eterofonia, fatta di piccoli echi esitanti che trasportano noi spettatori in un universo sonoro altro, luminoso e sospeso.
E poi si chiude con degli studi sinfonici; ma per pianoforte solo. Siamo talmente abituati a questo titolo che ormai non facciamo più nemmeno caso al paradosso in esso contenuto (paradosso condiviso con la Sonata n. 3, scritta fra il ’35 ed il ’36, dallo stravagante titolo di Concerto senza orchestra). Ma vi fece sicuramente caso Schumann, se dobbiamo valutare la sequenza dei titoli di questo lavoro: quando, nel 1852, ripubblicò la sua op. 13, ampiamente revisionata, erano diventati Études en forme de variations, dopo aver debuttato come Variations pathétiques, per poi trasformarsi in Etüden im Orchestercharakter von Florestan und Eusebius per mutarsi poi in Fantaisies et Finale sur un thème de M. le Baron de Fricken. Nel 1837, in occasione della prima pubblicazione (ed è questa la versione qui presentata), a Vienna presso Haslinger, erano Douze études symphoniques, op.13.
Perché “sinfonici”, allora? Probabilmente perché l'adozione della copertura del martelletto in feltro (invece che in pelle) aveva portato il pianoforte a rivaleggiare con l'orchestra: il nuovo pianoforte, in altre parole, poteva fare ciò che faceva l'orchestra, esplorando nuovi territori in cui sonorità limpide potevano sovrapporsi a macchie sonore indistinte, tanto che lo Studio n. 11 viene visto da alcuni musicologi come una lontana premonizione di Ondine di Ravel. Insomma, Schumann si affianca così ai pianisti Chopin e Liszt (che gli dedicò la Sonata in si minore) che elaboravano in quegli anni una tecnica del suono pianistico novativa; anzi, rivoluzionaria.
Gli studi sono in forma di variazioni, su un tema non del compositore ma di un dilettante, il barone von Fricken, padre della fidanzata di quel momento (prima che sbocciasse il grande amore per Clara Wieck). Il barone, che suonava il flauto, aveva mandato nel 1834 a Robert un suo tema con variazioni, sollecitando un parere, dal quale il giovane compositore si districò diplomaticamente rispondendo che il tema lo aveva interessato al punto da fargli pensare di scrivere a sua volta delle variazioni. Quando, nel 1837, riprese in mano le Fantaisies et Finale, modificò radicalmente la struttura del tema, tolse cinque variazioni, ne aggiunse altre, mutò l'ordine di qualche pezzo, cambiò per due volte il titolo e assegnò il numero d'opus 13, creando un ulteriore paradosso perché la struttura delle variazioni/studi non corrispondeva più per intero alla struttura del tema ormai modificata.
Lo Schumann che nel 1834 pone mano agli Studi è un musicista di ventiquattro anni che utilizza la variazione come traduzione musicale di quello sdoppiamento di sé che era poi il legame più stretto con l’altra sua grande passione, quella letteraria, che adesso si trovava a convivere con quella musicale all'ombra del mito romantico dell'unità delle arti. Uno dei tanti scambi fra arte e vita che sono il connotato costante della sensibilità di Schumann: soprattutto in quegli anni giovanili dato che proprio nell'aprile del ’34 usciva il primo numero di quella Neue Zeitschrift für Musik di cui era stato fondatore, redattore e animatore di polemica critica. Le sue riflessioni estetiche venivano offerte al lettore sotto forma di narrazione dei dibattiti fra Florestano, Eusebio e il Maestro Raro che altro non erano se non i diversi sdoppiamenti dello stesso Schumann, ora ardente e impetuoso (Florestano), ora mite ed elegiaco (Eusebio) ma anche, all'occorrenza, equilibrato e savio (Maestro Raro). Attorniati da altri personaggi, a loro volta trasfigurazioni di protagonisti della vita privata di Schumann: da Chiarina (la figlia di Wieck, futura moglie di Schumann), a Felix Meritis, e cioè Mendelssohn.
Questa partitura, che rimanda, attraverso gli Studi di Chopin e Liszt, all’archetipo violinistico dei Capricci di Paganini, è un esempio tra i più fulgidi di tema con variazioni, situandosi fra le Diabelli di Beethoven e i due quaderni brahmsiani (da Händel e da Paganini) degli anni Sessanta. E forse non è un caso che in tutti e quattro i lavori il tema sia opera altrui (sia pure con ben diversa nobiltà, nel caso dei due cicli brahmsiani). Nel Rondò finale, di quasi duecento battute, Schumann si compiace di citare un altro tema, allora famoso, tratto dall'opera Der Tempier und die ]üdin di Heinrich August Marschner (1795-1861) e in particolare della romanza Du stolzes England, Freuedich (Risorgi, fiera Inghilterra) che è un ulteriore omaggio del sassone al suo amico inglese dedicatario dell'opera, il compositore William Sterndale Bennett, conosciuto attraverso Mendelssohn e futuro alfiere della Bach-Renaissance in Gran Bretagna.
È lo spettacolo della vita che ci passa perciò davanti agli occhi, in questo programma: la vita che passa dalla dolorosa bellezza di Schubert, animandosi nella danza evocata dal vitale Enescu per poi raffinarsi in una scrittura timbrica di rara bellezza; chiudendosi nella travolgente, espressiva intensità d’un variare continuo, vero specchio dell’infinita, raccolta ricchezza del vivere.
Pierpaolo Zurlo
1810
Prima rappresentazione dell'opera La cambiale di matrimonio di Gioachino Rossini.
Vincenzo Monti pubblica la prima edizione, in tre volumi, della sua traduzione dell’Iliade.
1881
Compare sul Giornale per i bambini (supplemento domenicale del quotidiano Il Fanfulla), a puntate, senza troppa convinzione da parte dell’autore (e probabilmente per pagarsi dei debiti di gioco), la prima metà de La storia di un burattino di Carlo Collodi che verrà completata in volume nel febbraio 1883.
Collodi definì il suo lavoro «una bambinata» e disse al direttore del giornale: «Fanne quello che ti pare, ma, se la stampi, pagamela bene, per farmi venire voglia di seguitarla».