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GUIDA ALL'ASCOLTO | KELEMEN QUARTET
Franz Joseph Haydn (Rohrau 1732 - Vienna 1809)
Quartetto in re minore op. 76 n. 2 “delle quinte” Hob. III, 76
Béla Bartók (Sânnicolau Mare 1881 - New York 1945)
Quartetto n. 3
Béla Bartók (Sânnicolau Mare 1881 - New York 1945)
Quartetto n. 4
NOTE DI SALA
Si legge spesso, anzi quasi sempre, che i sei quartetti di Bartók sono la vera continuazione degli ultimi sei di Beethoven. Perché l’intera generazione romantica (Schubert, Mendelssohn, Schumann, Brahms, Čajkovskij…) si sarebbe appoggiata al solo Beethoven dell’età di mezzo, o addirittura al Mozart maturo. Si crea così un buco quasi secolare nella storia del genere quartetto per archi che di sicuro lascia perplessi.
In realtà non è proprio così. Per capire, serve partire dalle fondamenta e dalla scienza delle costruzioni, cioè da Haydn, e dal Quartetto op. 76 n. 2 in particolare. Non solo e non tanto perché fa parte dell’ultima sestina di quartetti realizzata dal padre del genere tutto. Ma perché è la sintesi di un processo di ricerca e sviluppo elaborato da Haydn in quarant’anni di sperimentazioni su non meno di 81 lavori a lui attribuiti con certezza. Il sottotitolo “delle quinte” aiuta a capire. È infatti l’intervallo di quinta che fa nascere l’intero materiale con cui Haydn costruisce il primo movimento: il salto di cinque tacche sulla scala musicale, facile da intonare e da riconoscere, perfino banale. La sfida è farne l’origine di melodie e armonie, contrasti e distensioni, dialettica fra simili all’insegna della completa economia di mezzi. Dunque, non esposizione di due temi contrastanti sul piano espressivo, ma secca proposta di un materiale primordiale (appunto il salto di quinta) che permetta, nello sviluppo, la nascita di frammenti, incisi, nostalgie contrappuntistiche che gli scatti lirici del primo violino s’incaricano di temperare. Mentre i continui cambiamenti di registro creano spazi per ognuno dei quattro strumenti. Una lunga coda, più che a chiudere serve a ricordare quanto la complessità centrale sia figlia della semplicità iniziale.
Visionari sono anche gli altri tre movimenti. Nel secondo, la bella melodia del violino sul pizzicato degli altri strumenti sembra preludere a una serie di variazioni. Invece è solo ripetuta e diventa sperimentazione di timbri, sfiora il sentimentale, accetta ornamenti, resta sospesa, diventa un’improvvisa anticipazione schumanniana.
Il Minuetto ha il piglio dell’imminente Scherzo beethoveniano. Le sezioni laterali sono un canone a due voci: i violini da un lato, viola e violoncello dall’altro. Il Trio centrale è tutto giocato sull’armonia. Su un accordo aggregato lentamente svetta all’improvviso l’acuto del primo violino. Il finale Vivace assai ridiventa strutturale. Vive sulle mutazioni di nuclei tematici minimali che generano tensioni latenti più che espliciti contrasti drammatici, ovvero sintassi complessa grazie a vocaboli eleganti.
Il Quartetto delle quinte fa parte della serie scritta nel 1797 e contiene anche il celebre Kaiser Quartett (op. 76 n. 3). Dopo sarebbero venuti soltanto i due quartetti dell’op. 77 (1799) e l’incompiuto op. 103. Non sarebbero venute neppure altre sinfonie (l’ultima, 104 London, è del 1795). L’intera eredità passò a Beethoven, l’allievo a un tempo putativo e reale.
Come si sa, i quartetti ben rappresentano le cosiddette tre “maniere” di Beethoven. I primi sei (op. 18; 1800) germinano dai semi di Haydn. I cinque centrali (3 op. 59, singoli op. 74 e op. 95: 1808-10) evolvono nella piena maturità e diventano modelli per i successori germanici. Gli ultimi sei (op. 127, 130, 131, 132, 133, 135; 1825-26) sono visionari e sono spesso raccontati come sterili, almeno nell’immediato. Non è così in Mendelssohn e nemmeno in Schumann. Tantomeno in Brahms. Infatti, se tutti rispettano la dimensione temporale (circa mezz’ora) e i classici quattro tempi, le avventure armoniche di scuola beethoveniana non mancano. Ed è ben presente la voglia di compattezza architettonica, la valorizzazione degli incisi tematici piuttosto che l’abbandono al flusso della melodia. Comuni sono la rinuncia ai colori sgargianti, alle piroette di bravura. Insomma, il suono del quartetto si sviluppa in continuità per tutto l’Ottocento tedesco, e anche francese, sia pure con le diverse tinte di Debussy, Franck, Fauré, Chausson.
Quando si cimenta con il genere quartetto, l’ungherese (di scuola lisztiana) Bartók non si trova insomma su piste dimenticate. Fra l’altro era attivo e ben noto Schönberg, teorico dell’espressionismo ma anche convinto assertore dello strutturalismo, grande estimatore di Brahms;
già autore di due quartetti compiuti (1905, 1908) e altri soltanto abbozzati. Il primo quartetto di Bartók (1909) è figlio del suo tempo, ma si distingue per le componenti popolari che assorbe ascoltando la musica dei contadini danubiani: ritmi, scale, cantilene, timbri. Il secondo quartetto (1917) appartiene alla fase espressionista, in cui è proprio il materiale etnico a dare un solido contributo al disfacimento delle forme ottocentesche. Passano dieci anni e la visione stilistica di Bartók si amplia e si raffina a un tempo. La catastrofe della Grande Guerra ha portato alla voglia di una nuova classicità, nel senso di recupero di un ordine antico che consenta di assorbire il presente confuso. Ecco allora che nascono la Sonata per pianoforte (1926) e soprattutto Terzo e Quarto Quartetto (1927, 1928).
L’ascolto trasmette ovviamente tanti riflessi dello spirito del tempo e del carattere dell’autore, ma non sfugge che la chiarezza e la forma di questi tre capolavori rimandano non tanto a Beethoven, quanto a Haydn. Nei quartetti poi, il gioco delle simmetrie è impareggiabile. Il Terzo si articola in quattro sezioni complementari costruite elaborando due o tre motivi che generano il resto. Dopo poche battute di introduzione alla prima parte, si sente una cellula germinale (quarta ascendente e terza minore discendente) appoggiata su una dissonanza stridente (di seconda) che si espande, a cuneo. È un attacco di grande efficacia, che sorge dal silenzio, diventa una spettrale musica notturna, si frammenta in una pausa centrale, arriva alla massima tensione e si perde nel dominio del rumore. La Ricapitolazione della prima parte non è una ripresa letterale ma una sintesi stringata, un ritorno a formule contrappuntistiche utili a sostenere la feroce intensificazione timbrica e ritmica di un finale che s’innesta senza pausa.
L’architettura ha, dunque, simmetrie classiche a supporto però di un suono ruvido, antiromantico. Si sente la vicinanza della precedente fase espressionista e il costante riferimento alla tradizione popolare. L’esplorazione di nuove frontiere nel suono degli archi (percussioni del legno, colpi d’arco inconsueti) si aggiungono a trilli, pizzicati e tremoli fischianti già sperimentati. Il tutto esaltato da una concisione (circa un quarto d’ora) resa ancor più compatta per mancanza di cesure fra una sezione e l’altra; il che fa dal Terzo quartetto il più breve dell’intera serie.
Il Quarto nasce a pochi mesi di distanza e appare come separato da un abisso. È netta la scelta di mantenere il sistema armonico classico, con rinuncia all’atonale di Schönberg e al non tonale del lessico popolare. L’avvicinamento alla gran corrente neoclassica diventa irreversibile, anche se resta lontana dal programmatico disimpegno del caposcuola Stravinskij. Nel Quarto quartetto non c’è gioco, o divertimento; tutto è subordinato alla costruzione e, attraverso essa, all’espressione. Le violenze timbriche e i rumori sono addolciti. Il rigore formale è paragonabile a quello che applicava Webern, negli stessi anni, sul versante dodecafonico. Ancor più che nel Terzo, l’architettura si regge su poche e minime cellule che si trasformano in pseudomelodie grazie al costante intreccio di inversioni e di espansioni. Nel primo dei cinque movimenti, due incisi contrastanti nascono da una sola cellula e sviluppano una (settecentesca!) forma sonata, con tanto di esposizione, sviluppo, ripresa e coda. L’attacco del violoncello, in apertura, è la base d’appoggio ben riconoscibile di spunti polifonici e di suoni che riconosciamo come cifra di Bartók: tremoli, glissandi, ostinati, ribattute; strappate di archi che nel fortissimo conclusivo sembrano squilli di tromba.
Il secondo movimento è uno Scherzo inquietante. Disegni impalpabili, pizzicati, frantumazioni ritmiche si esauriscono all’improvviso, con sordina. Segue un Trio in forma di canone. E poi una ripresa fulminea. Il terzo movimento, pure tripartito, è una delle più intense “musiche notturne” di Bartók. Nelle sezioni laterali una lunga nenia del violoncello (che imita il tárogató, un rudimentale strumento a fiato del folklore magiaro) e un melodizzare improvvisatorio del violino si muovono sulla gelida fascia sonora creata dall’altro violino e dalla viola. Nella sezione centrale il cinguettio del violino ravviva tremoli e strappi altrimenti angoscianti.
Gli ultimi due movimenti sono legati per simmetria ai precedenti. Il quarto riprende il clima del secondo, però tutto in pizzicato. È una pagina celebre. Il quinto si lega al primo, recuperandone lo slancio, il tono popolaresco, il motore ritmico, l’accentazione asimmetrica. Solo di tanto in tanto un melodizzare più ampio buca il compatto brulicare di motivi e microcellule che assicura l’unità dell’intero Quarto quartetto.
A fine concerto, vien da dire che, in Bartók, valgono l’idioma del tempo e l’eredità espressiva beethoveniana, però non meno contano le più antiche invenzioni formali haydniane. In una storia del genere quartetto che è evoluzione lineare e non frammentata; che peraltro non finisce qui ma prosegue, nel Novecento, con Šostakovič, il legittimo erede. Ancora, nel Ventunesimo con Maxwell Davis, Carter, Sciarrino…
Enzo Beacco
1797 Haydn compone "Gott erhalte Franz den Kaiser", che diverrà poi l’inno nazionale tedesco “Deutschland, Deutschland über alles”. Beethoven pubblica la Sonata per Pianoforte nr. 4 opera 7, detta “la Gran Sonata”, una delle più lunghe da lui composte. Nasce, come bandiera della repubblica Cisalpina, il tricolore Italiano, mentre il 12 Maggio Napoleone Bonaparte conquista Venezia: dopo 1100 anni la Serenissima Repubblica non esiste più. André-Jacques Garnerin a Parigi si lancia da una mongolfiera a più di 1000 metri di altezza con la sua invenzione: l’atterraggio non fu dei migliori ma Gamerin rimase illeso ed il paracadute moderno era nato.
1927 La Suite Lirica di Alban Berg viene eseguita in prima mondiale a Vienna. In Virginia si costituisce The Carter Family, il primo gruppo folk che è considerato il capostipite di tutto il genere Country moderno. Il 21 Maggio lo Spirit of St. Louis, pilotato da Charles Lindbergh, atterra a Le Bourget, Parigi, dopo essere decollato 33 ore prima da New York: la prima trasvolata Atlantica della storia. A Spalato nasce il giornalista e scrittore Enzo Bettiza, mentre esce il capolavoro del cinema muto Metropolis, d Fritz Lang, ed il primo film in coppia di Stan Laurel e Oliver Hardy Putting Pants on Philip.
1928 Il 31 Agosto a Berlino va in scena la prima de “l’opera da tre soldi" di Kurt Weil, dal testo di Bertolt Brecht, seguita dalla premier di Bolero di Maurice Ravel a Parigi. Nasce Topolino (Mickey Mouse) debuttando in Steamboat Willie, mentre ri-nasce dopo 2000 anni di oblio, lo YoYo. Alexander Fleming scopre la penicillina: l’era degli antibiotici era iniziata, cambiando la storia della medicina. In Italia inizia la costruzione delle “grandi opere” che caratterizzeranno gli anni '30..