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GUIDA ALL'ASCOLTO / LISTENING GUIDE | CONCERTO N° 1498 FACCINI PIANO DUO
Igor' Fëdorovič Stravinskij (San Pietroburgo 1882 - New York 1971)
Petrushka (3 numeri dalla suite)
Joseph Maurice Ravel (Ciboure 1875 - Parigi 1937)
Rapsodie Espagnole
Igor' Fëdorovič Stravinskij
Le Sacre du Printemps
NOTE DI SALA / HALL NOTES
(english text below)
Ai bei tempi (si fa per dire) avere un pianoforte in salotto era il sistema più facile e flessibile per fare musica in casa. Funzionava bene se suonato da solo, ancor meglio in compagnia, anche per ballare. Serviva per accompagnare un violino o un flauto, una voce o un coretto familiare. Se poi alle due mani di un singolo pianista si aggiungevano quelle di un secondo, le opportunità si moltiplicavano. Grazie alle risorse di una tastiera portata a 88 tasti e spaziante su sette ottave, al banchetto a due posti e alle venti dita disponibili, era possibile riprodurre l’intero spettro dei moderni strumenti musicali, singoli o riuniti in grande orchestra, e senza dover tralasciare alcuna nota. Così per tutto l’Ottocento e buona parte del Novecento, oltre al non ristretto repertorio originale per pianoforte a quattro mani (Mozart, Schubert, Schumann, Brahms, Bizet, Fauré, Ravel, Debussy, Stravinskij…) i leggii domestici ospitavano un gran numero di trascrizioni, ovviamente delle sinfonie di Beethoven ma di ogni tipo di composizione per largo organico vocale e strumentale altrimenti disponibile solo a teatro o in sala da concerto.
Poi (ahimè) sono arrivati i tempi nostri. La radio e il grammofono hanno rivoluzionato il modo di fare musica in casa. Magari il pianoforte è rimasto in bella vista in salotto ma sono spariti i dilettanti capaci di usarlo. Una gloriosa tradizione è stata distrutta. La pratica è rimasta confinata al campo educativo e professionale, peraltro da sempre coltivato. Il principiante s’impratichisce assieme al suo maestro, il concertista si allena con un collega in vista di una prova con orchestra e successiva esibizione pubblica, il direttore decifra una partitura nuova con l’aiuto di un assistente.
Le musiche per pianoforte a quattro mani che ascolteremo stasera si collocano sulla linea d’ombra che separa l’uso professionale da quello amatoriale. Nascono infatti nel decennio che precede la Grande Guerra, quando la tradizione della musica fatta in casa è ancora viva e quella della musica riprodotta è appena cominciata, mentre la pratica professionale è più viva che mai.
Infatti, tutti i lavori che ascolteremo hanno origine pianistica. Tanto più che entrambi gli autori in programma componevano al pianoforte, cioè collaudavano subito sulla tastiera i parametri fondamentali (armonia, ritmo, melodia) riservandosi di scegliere i timbri, cioè i colori strumentali, solo nella scrittura finale della partitura. Sia Ravel che Stravinskij erano pianisti per formazione, discreto ma non eccelso il primo, più modesto il secondo. Il legame col pianoforte è davvero fondante in (quasi) tutte le loro composizioni, anche se fin dall’inizio immaginate per altri organici.
Petrushka, che troviamo a inizio programma, addirittura nasce come pezzo per pianoforte. Dopo aver assaporato il successo della sua prima musica per balletto (L’oiseau de feu, Parigi 1910) e mentre stava impostando quello nuovo (Le Sacre du Printemps, Parigi 1913), Stravinskij voleva cimentarsi in una composizione di tipo concertistico, in cui un pianoforte solista, bizzoso e pieno di scatti, leggero e sfuggente si contrappone a un’orchestra compatta e a suo modo minacciosa, ostile. Lo ispiravano le vicende di un burattino del teatro popolare russo alle prese con la baraonda della società umana. Fece ascoltare alcune prime pagine all’impresario Sergei Diaghilev. Che fu entusiasta e ne chiese subito la trasformazione in un nuovo lavoro per i suoi Ballets russes, allora trionfanti in tutta Europa.
In pochi mesi, sospendendo ogni altro proposito, fu realizzato prima un canovaccio per pianoforte a quattro mani e poi una partitura per grande orchestra, suddivisa in tre parti ciascuna delle quali articolata in più scene. Nella vicenda, il burattino di stoffa Petrushka s’innamora della ballerina che però gli preferisce il ricco Moro, dal quale è inseguito e ucciso nel trambusto del carnevale di San Pietroburgo. Però il burattino rinasce come spirito pronto a farsi beffe del mondo intero. Completato a Roma l’11 maggio del 1912, il balletto debuttò a Parigi il 13 giugno. Fu accolto piuttosto bene, nonostante fosse una costante sfida al gusto del tempo.
All’inizio della sua strepitosa carriera il ballerino Vaclav Nižinskij si trovò a perfetto agio nei panni dello stralunato burattino. Coreografie di Michel Fokine più costumi e regia di Alexandre Benois completarono uno spettacolo di memorabile e pure accettabile avanguardia. Di sicuro innovative erano le scelte musicali, a cominciare dall’armonia politonale e zeppa di dissonanze. La complessa poliritmia mise in difficoltà gli esecutori, peraltro diretti da un eccellente Pierre Monteux. Le melodie ridotte a semplici incisi o a ostinate frammentazioni erano quanto più lontane dalle morbidezze tardoromantiche o impressioniste allora in voga. I colori sgargianti della grande orchestra in parte assorbivano e in parte esaltavano un pianoforte onnipresente.
Fra i tanti ammiratori della scrittura pianistica, un Artur Rubinstein agl’inizi di carriera chiese a Stravinskij una trascrizione per pianoforte solo. Gli corrispose una somma importante (più di quanto lo pagò Diaghilev per l’intero balletto, confessò Stravinskij) e ottenne Trois mouvements de Petrouchka, un pezzo martellato e muscoloso, di micidiale difficoltà: lo presentò in concerto in tutto il mondo, ma non lo registrò mai su disco, si dice per non rivelare i compromessi tecnici cui doveva ricorrere. Resta nel repertorio di tanti virtuosi dei nostri giorni, intatto e travolgente. E tale rimane la versione per quattro mani, meno rischiosa forse, ma non meno abbagliante.
Dalla tastiera parte anche la Rapsodie espagnole, anzi da uno specifico pezzo per due pianoforti, una Habanera (1895) composta a vent’anni. È il punto di partenza di un filo che lega Ravel ai suoni di Spagna per tutta la vita, fino all’estremo Boléro (1928). Anche per competere con l’amico rivale Debussy, nel 1907-08 la trascrisse per orchestra inserendola al terzo posto in una raccolta di quattro immagini sonore, rapsodie colorate e nostalgiche. Si evocano subito i languori della notte andalusa nell’ostinato ripetersi di una formula di quattro note trafitta dall’improvvisa invocazione di una saeta sivigliana. La tristezza camuffata da danza con nacchere sta nel flamenco di Malaga. L’Habanera è una danza importata dalla Cuba coloniale, con punte di tango argentino su un passo cadenzato e come rallentato. Quindi arriva Feria, la sintesi, per ritrovare furori e languori, compresa la fatidica formula iniziale di quattro note: un giorno di festa, di carnevale, di sagra paesana.
Non è una festosa festa paesana, quel capolavoro della musica di tutti i tempi che la pratica italiana intitola La sagra della primavera: fuorviante traduzione dal francese Le Sacre du Printemps, meglio resa dall’inglese The Rite of Spring. Si tratta, infatti, di un rito religioso e severo, ancestrale e crudele. Prelude al sacrificio di una fanciulla, peraltro democraticamente (!) eletta da un consesso di vecchioni. Scene della Russia pagana in due parti la definì il trentenne autore Stravinskij. L’aveva maturata nel biennio 1910-12, studiando il folklore russo e costruendo una narrazione in cui, nella prima parte, la Terra che si risveglia viene adorata, celebrata con cortei, danze di fanciulle e ragazzi, competizioni ginnico-guerresche, festeggiata nel tripudio di tutti. Il sacrificio occupa la seconda parte: cerchio mistico delle candidate, anziani che scelgono l’eletta, evocazione degli antenati, danza rituale di lei, fino alla morte che riscatta alle divinità lontane il pegno per la vita che rinasce, anzi continua sulla Terra.
La musica scandisce l’azione con algido distacco. Inutile cercare sentimentalismi e commozioni. Il rito è quello, noi siamo semplici testimoni, spettatori della violenza primordiale, sembra dire Stravinskij. E la sua musica è violenta, cruda. Quanto sperimentato nel precedente L’oiseau de feu e nel sincrono Petrushka è portato al parossismo, ancora più efficace perché maturato a lungo e organizzato con artigiana sapienza. Più ancora delle avveniristiche scene, dei barbari costumi, delle danze asimmetriche, fu il suono a creare, nel parigino Théâtre des Champs-Élysées (29 maggio 1913) il più famoso scandalo della storia della musica. Non si fermarono schiamazzi e proteste di un pubblico che non sopportava confricazioni armoniche, spezzate melodiche, sparigli ritmici, bordate sonore di un’orchestra mostruosamente dilatata.
Erano presenti anche spettatori entusiasti. Fra loro il nostro D’Annunzio, folgorato. E un Ravel ben consapevole, perché aveva ascoltato le prove. Soprattutto c’era Debussy, che qualche tempo prima, in casa privata, a quattro mani con l’autore, aveva decifrato al pianoforte la versione primigenia, tanto da scrivere “mi ossessiona come un magnifico incubo e cerco, invano, di rievocare quell’impressione terrificante”. La versione per pianoforte a quattro mani fu pubblicata per prima, nel 1913 (quella orchestrale solo nel 1921) ed ebbe immediato successo, anche perché l’assenza degli altri strumenti rende più nitido il segno e l’architettura. Di sicuro, stasera, l’aggiunta delle percussioni esalta la cifra peculiare di Le Sacre, il ritmo.
Enzo Beacco
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In the good old days (so to speak) having a piano in the living room was the easiest and most flexible way to make music at home. It worked well when played alone, even better in company, even for dancing. It was used to accompany a violin or flute, a voice or a familiar choir. If the hands of a second were added to the two hands of a single pianist, the opportunities multiplied. Thanks to the resources of an 88-key keyboard spanning seven octaves, the two-seater banquette and the twenty available fingers, it was possible to reproduce the entire spectrum of modern musical instruments, single or gathered in a large orchestra, and without having to no note. So throughout the nineteenth century and a good part of the twentieth century, in addition to the non-restricted original repertoire for piano four hands (Mozart, Schubert, Schumann, Brahms, Bizet, Fauré, Ravel, Debussy, Stravinsky…) the domestic lecterns hosted a large number of transcriptions, obviously of Beethoven's symphonies but of every type of composition for large vocal and instrumental ensemble otherwise available only in the theater or in the concert hall.
Then (alas) our times arrived. The radio and the gramophone have revolutionized the way music is made at home. Perhaps the piano has remained in plain sight in the living room but the amateurs capable of using it have disappeared. A glorious tradition has been destroyed. The practice has remained confined to the educational and professional field, which has always been cultivated. The beginner practices together with his teacher, the concert player trains with a colleague in view of a rehearsal with orchestra and subsequent public performance, the conductor deciphers a new score with the help of an assistant.
The music for piano four hands that we will listen to tonight is placed on the shadow line that separates professional use from amateur use. In fact, they were born in the decade preceding the Great War, when the tradition of home-made music was still alive and that of reproduced music had just begun, while professional practice was more alive than ever.
In fact, all the works that we will hear have a piano origin. Especially since both authors in the program composed on the piano, that is, they immediately tested the fundamental parameters on the keyboard (harmony, rhythm, melody) reserving the right to choose the timbres, i.e. the instrumental colors, only in the final writing of the score. Both Ravel and Stravinsky were pianists by training, the former discreet but not excellent, the latter more modest. The link with the piano is truly fundamental in (almost) all their compositions, even if they were imagined from the beginning for other ensembles.
Petrushka, which we find at the beginning of the program, was even born as a piano piece. Having tasted the success of his first ballet music (L'oiseau de feu, Paris 1910) and while he was setting up the new one (Le Sacre du Printemps, Paris 1913), Stravinsky wanted to try his hand at a concert-type composition, in which a solo piano, capricious and full of shots, light and elusive is opposed to a compact and in its own way menacing, hostile orchestra. He was inspired by the story of a puppet from the Russian folk theater grappling with the chaos of human society. He played some front pages to impresario Sergei Diaghilev. Who was enthusiastic and immediately asked for its transformation into a new work for his Ballets russes, then triumphant throughout Europe.
In a few months, suspending all other intentions, a canvas for piano four hands was created first and then a score for large orchestra, divided into three parts, each of which divided into several scenes. In the story, the fabric puppet Petrushka falls in love with the dancer who, however, prefers the rich Moro, by whom he is chased and killed in the hustle and bustle of the St. Petersburg carnival. But the puppet is reborn as a spirit ready to make fun of the whole world. Completed in Rome on 11 May 1912, the ballet premiered in Paris on 13 June. It was quite well received, despite being a constant challenge to the taste of the time.
At the beginning of his sensational career, the dancer Vaclav Nijinsky found himself perfectly at ease in the role of the bewildered puppet. Choreography by Michel Fokine plus costumes and direction by Alexandre Benois completed a memorable and acceptable avant-garde show. The musical choices were certainly innovative, starting with the polytonal harmony full of dissonances. The complex polyrhythm put the performers in difficulty, moreover directed by an excellent Pierre Monteux. The melodies reduced to simple engraved or stubborn fragmentations were the furthest away from the late romantic or impressionist softness then in vogue. The gaudy colors of the large orchestra partly absorbed and partly exalted an omnipresent piano.
Among the many admirers of piano writing, an early career Artur Rubinstein asked Stravinsky for a transcription for solo piano. He paid him a large sum (more than Diaghilev paid him for the entire ballet, Stravinsky confessed) and obtained Trois mouvements de Petrouchka, a hammered and muscular piece of deadly difficulty: he presented it in concert all over the world, but did not never recorded on disc, it is said so as not to reveal the technical compromises he had to resort to. It remains intact and overwhelming in the repertoire of many modern-day virtuosos. And this remains the version for four hands, perhaps less risky, but no less dazzling.
The Rapsodie espagnole also starts from the keyboard, or rather from a specific piece for two pianos, a Habanera (1895) composed at the age of twenty. It is the starting point of a thread that binds Ravel to the sounds of Spain throughout his life, up to the extreme Boléro (1928). Also to compete with his rival friend Debussy, in 1907-08 he transcribed it for orchestra placing it in third place in a collection of four sound images, colorful and nostalgic rhapsodies. The languor of the Andalusian night is immediately evoked in the obstinate repetition of a four-note formula pierced by the sudden invocation of a Sevillian saeta. Sadness disguised as a dance with castanets lies in the flamenco of Malaga. The Habanera is a dance imported from colonial Cuba, with Argentine tango tips on a cadenced and slowed down step. Then comes Feria, the synthesis, to rediscover fury and languor, including the fateful initial formula of four notes: a day of celebration, of carnival, of a village festival.
It is not a festive country festival, that masterpiece of music of all time that the Italian practice entitles La sagra della primavera: misleading translation from the French Le Sacre du Printemps, better rendered by the English The Rite of Spring. It is, in fact, a religious and severe rite, ancestral and cruel. It is a prelude to the sacrifice of a girl, democratically (!) elected by a group of old men. Scenes from pagan Russia in two parts, the thirty-year-old author Stravinsky called it. He had matured it in the two-year period 1910-12, studying Russian folklore and constructing a narrative in which, in the first part, the awakening Earth is adored, celebrated with processions, dances of girls and boys, gymnastic-war competitions, celebrated in rejoicing for all. Sacrifice occupies the second part: mystical circle of candidates, elders who choose the chosen one, evocation of the ancestors, her ritual dance, until death which redeems the pledge from distant divinities for life that is reborn, indeed continues on Earth.
The music punctuates the action with icy detachment. It is useless to look for sentimentality and emotion. That's the ritual, we are simple witnesses, spectators of primordial violence, Stravinsky seems to say. And his music is violent, raw. What was experienced in the previous L'oiseau de feu and in the synchronous Petrushka is brought to paroxysm, even more effective because it matured over a long time and organized with artisan wisdom. Even more than futuristic scenes, barbaric costumes, asymmetrical dances, it was sound that created, in the Parisian Théâtre des Champs-Élysées (May 29, 1913), the most famous scandal in the history of music. The shouts and protests of an audience that could not stand harmonic frictions, broken melodics, rhythmic jumbles, sonorous broadsides of a monstrously dilated orchestra did not stop.
Enthusiastic spectators were also present. Among them our D'Annunzio, thunderstruck. And a well aware Ravel, because he had listened to the evidence. Above all there was Debussy, who some time before, in a private house, collaborating with the author, had deciphered the original version on the piano, so much so that he wrote "it haunts me like a magnificent nightmare and I try, in vain, to recall that terrifying impression". The version for piano four hands was published first, in 1913 (the orchestral one only in 1921) and was immediately successful, also because the absence of the other instruments makes the sign and the architecture clearer. Certainly, tonight, the addition of percussion enhances the peculiar figure of Le Sacre, the rhythm.
Enzo Beacco
Pierrot Lunaire di Schoenberg va in scena a Berlino, suscitando, secondo quanto racconta Anton Webern “una reazione mista di fischi e risate, ma alla fine fu un indiscutibile successo”. All’inizio dell’anno, a causa di una rara configurazione gravitazionale, la velocità di rotazione della Terra tocca il minimo storico mai registrato (ma se ne accorsero solo gli astronomi). La notte del 14 Aprile, alle 23.39, con la nave lanciata in “avanti tutta”, la vedetta del Titanic rompe il silenzio della notte: “Iceberg a prua!”, ma è troppo tardi! non resta che lanciare dalla radio di bordo . . . _ _ _ . . . Pochi giorni dopo, il 25 Aprile, viene inaugurato “com’era e dov’era” il ricostruito campanile di San Marco a Venezia.
1908
La Sinfonia nr. 2 di Rachmaninoff e Childrens’ Corner di Debussy ottengono entrambi un grande successo alla loro prima esecuzione. In Siberia, la mattina del 30 Giugno un enorme esplosione causata dalla collisione con un enorme meteorite o una cometa rade al suolo milioni di alberi per centinaia di chilometri quadrati nei pressi del fiume Tunguska. Ferdinand von Zeppelin presenta il suo dirigibile per 100 passeggeri. Edward Much, l’autore del famosissimo dipinto “l’urlo” viene ricoverato in clinica psichiatrica a causa di “disturbi nervosi”.
1913
Al Musikverein di Vienna, Schoemberg, Berg e Webern mettono in scena uno “Skandalkonzert”, eseguendo le proprie composizioni: le cronache dell’epoca riportano che la serata terminò prematuramente: “forte agitazione del pubblico in reazione ai brani, lancio di sedie ed oggetti, una autentica rissa che ha coinvolto il pubblico e gli artisti”. Negli Stati Uniti viene brevettato un laminato plastico che divenne famoso con il nome di Formica. In Perù, dopo secoli di oblio, gli archeologi riscoprono la città delle nuvole “Machu Picchu”, mentre Charlie Chaplin inizia il suo prolifico sodalizio con Mark Sennett, da cui usciranno capolavori immortali del film comico.