NOTE DI SALA
Siamo a Parigi, a ottobre del 1849, e Chopin, sul letto di morte, chiede che gli venga suonata musica di Vincenzo Bellini. Oggi, al Père-Lachaise è sepolto vicino a lui. Non sembri arbitrario questo accostamento, perché almeno metà di questo programma, quella incentrata sui Notturni (ma anche certi Studi seguono questa impostazione), è profondamente legata alla conduzione della linea melodica così come era stata portata ovunque in Europa dai compositori italiani. Questa specifica forma creativa, una sorta di breve meditazione notturna, appunto, su temi che il Romanticismo considerava fondamentali per l’animo umano, era stata portata (allora) recentemente all’attenzione del pubblico da John Field (1782-1837), un irlandese giunto a San Pietroburgo nel 1802, su speciale raccomandazione di Muzio Clementi, e poi rimasto – tra Mosca e la città baltica, tra insegnamento e concertismo – fino alla sua morte (la sua tomba è nel piccolo e grazioso cimitero di Vvedenskoye, nella zona est della capitale).
Field aveva trasferito sulla tastiera i lievi moti dell’animo notturno d’un romantico, utilizzando una tavolozza descrittiva discreta che teneva però conto dell'arte tipicamente italiana di scolpire in pochi tratti e poi di abbellire la melodia. E questo rimane probabilmente l’unico elemento che funge da tratto connettivo fra i suoi 18 Notturni (scritti tra il 1814 ed il 1835) ed i 19 componimenti con lo stesso titolo pubblicati in 9 raccolte da Chopin tra il 1832 ed il 1846. Dal punto di vista compositivo, difatti, quest’ultimo sviluppò – nel corso degli anni – una notevole maestria nell’elaborazione armonica che arricchiva la struttura melodica fino ad introdurre complesse ed assai articolate modulazioni persino nei passaggi di transizione. Si valutino, per esempio, le prime misure del Notturno, op.9, nr.2, che sospende tanto il Fa maggiore alla mano destra quanto la nota di passaggio “re” nel basso evitando così di far percepire l’accordo modulante di Mi bemolle nella sua forma più compiuta; oppure all’utilizzo assai peculiare della mano sinistra che sembra quasi irrigidirsi sull’asse armonico principale nel basso mentre le stesse note acute dell’accompagnamento e la mano destra elaborano strutture melodico-armonico del tutto diverse e quasi indipendenti (procedimento questo chiaramente percepibile nel Notturno op.27, nr.2, nell’op.9, nr.1 e nell’op.15, nr.1) dando all’ascoltatore un colore soffice, quasi velato, sostanzialmente impressionistico. Se si volesse rilevare un tratto caratteristico dei Notturni potrebbe proprio questo senso di sospensione che il movimento armonico rende immediatamente percettibile e dal quale ogni pianista che affronta queste pagine non può prescindere. «Le temps derobé» lo definiva lo stesso Chopin: inflessibile aderenza al tempo metronomico della mano sinistra e libera, quasi impaziente mobilità della linea melodica alla destra, colma di sottili variazioni timbriche che un “legato” perfetto rende trascoloranti e cangianti, suprema magnitudo dell’espressività vocale della tastiera, laddove l’intensità rimpiazza la mera forza, in un sottile gioco prospettico di polifonie, semplice e naturale (ben distante perciò dall’immagine popolare del romantico virtuoso). Non per nulla Hector Berlioz aveva scritto di questi lavori che «per ben apprezzare compiutamente Chopin, credo lo si debba ascoltare da vicino, in un salone, anziché in un teatro».
* * * * * * * *
Alternata ai lavori che costituiscono l’antologia dei Notturni, si situa l’esecuzione integrale degli Studi, op.10 del 1830-32 (pubblicati nel 1833), già verosimilmente composti perciò, almeno in buona parte, all’arrivo di Chopin a Parigi a settembre del 1831 e quindi frutto d’un giovane di appena diciannove anni.
Studi veri e propri, dedicati a Franz Liszt, che enucleano nelle loro pagine una determinata difficoltà esecutiva dandone non solo una soluzione in termini tecnici ma – anche e soprattutto – rivestendola ogni volta d’una struttura creativa che rende cosa compiuta, privilegiandola, l’espressione artistica, in modo tale che l’elemento tecnico alla fine possa fungere da veicolo, da vettore verso la trascendenza virtuosistica che si muta allora in canto. Non più nel canto disteso dei Notturni, ovviamente, ma in quell’intrico scintillante che, attraverso varie metamorfosi stilistiche, ritroveremo poi nei Préludes (1909-12) e negli Études (1915) di Claude Debussy (1862-1918), e nella prima e seconda Sonate (1946 e 1948) di Pierre Boulez (1925-2016), a testimonianza della prodigiosa modernità del lavoro di Chopin che dal primo al dodicesimo studio esplora nei fatti anche le caratteristiche timbriche dello strumento, trasformandolo in quella sorta di “generatore di suoni” che poi verrà ampliata e valorizzata nel corso dei decenni fino a giungere ai nostri giorni. È indubbio che siano proprio questi Studi a condurre l’indagine più avanzata sul – e nel – pianoforte, facendogli compiere un balzo tecnico importantissimo; tant’è che il dedicatario, ricevuta la copia, si isolò per alcuni giorni per studiarli, tornando in società solo per eseguirli di fronte al giovane compositore e rivelandogli così non solo la perfetta padronanza delle tecniche indagate ma anche la profonda comprensione dei tratti coloristici che Chopin intendeva evocare.
D’altronde il modello cui fanno riferimento è d’altissima caratura se già dal primo Studio, nell’apparentemente semplice tonalità di Do maggiore e concentrato sul gioco di estensioni (élargissement) della mano destra, l’ispirazione s’affida al primo dei 24 Capricci, op.1 (1820) di Nicolò Paganini (1782-1840) per la tensione richiesta alla mano dell’esecutore.
Nel secondo, Chopin concentra le difficoltà nella diteggiatura precisissima per singole dita della mano destra – medio, anulare e mignolo – costringendo l'esecutore a esasperanti scavalcamenti che la velocità esecutiva prescritta di certo non favorisce.
Il terzo studio, dall’ingannevole afflato melodico, cela le sue insidie nella resa d’una scala cromatica costruita su accordi di settima diminuita, per moto contrario, che deve edificare una melodia traendola dal viluppo armonico, quasi fosse un enigma da sciogliere. Il quarto studio, in do diesis minore, si configura come la naturale evoluzione di quello che lo precede, al quale segue senza soluzione di continuità (anche in questo concerto): lieve e passionale allo stesso tempo, è un esercizio per la sincronìa delle mani e lavora sul legato e sul gioco tempestoso del pollice sui tasti neri.
Il quinto studio è fulminante per rapidità, tanto che Liszt lo descrisse come un’«improvvisazione piccante». Il sesto, invece, torna ad indagare il fattore interpretazione (delle linee polifoniche, in questo caso) ed ha come fine precipuo quello di consentire all’esecutore di mantenere una complessa melodia in perfetto equilibrio elegiaco ed espressivo che contrasti apertamente con l’irruenza “da toccata” dello studio che segue, il settimo, tutto giocato su terze e seste parallele in perenne e fluttuante movimento.
Sei pagine di passaggi arpeggiati che trascolorano la pregnanza timbrica della tastiera sono l’argomento dell’ottavo studio che esplora sotto altra prospettiva la figurazione dell’arpeggio: sei pagine d’agilità pura per la mano destra che poi, transitata al basso, diventa materia del nono studio, in fa minore, caratterizzato dalle malinconiche frasi melodiche che lo contraddistinguono. Si aggiunga la complessità d’un ritmo implacabile e si ha il decimo studio, irto di doppi diesis e doppi bemolli, estenuante alla lettura ed all’esecuzione ma entusiasmante all’ascolto.
Ancora arpeggi, protagonisti dell’undicesimo studio, alternati fra le due mani, le cui note più acute costituiscono il fraseggio melodico che sembra sorgere da un turbinio apparentemente informe e si giunge alla conclusione col celeberrimo dodicesimo studio, in do minore, «La caduta di Varsavia», scritto di getto alla notizia della resa della capitale polacca da parte delle truppe zariste nel settembre 1831 che aveva soffocato nel sangue i moti nazionalistici che di tante, fallaci speranze avevano nutrito lo stesso Chopin (allora a Stoccarda): su un vorticoso tempestare di semicrome ascendenti e discendenti della mano sinistra s’innalza il canto d’una Polonia indomita ma piegata, speranzosa ma avvilita, che percorre simbolicamente l’intera tastiera alla ricerca d’un filo d’aria che la cupa tonalità di do minore non sembra concederle.
Pierpaolo Zurlo