Ludwig van Beethoven (Bonn 1770 - Vienna 1827)
Sonata per pianoforte n. 24 in Fa diesis maggiore, op. 78 (1809)
I. Adagio cantabile. Allegro ma non troppo
II. Allegro assai
GUIDA ALL'ASCOLTO CONCERTO N° 1477 | FILIPPO GAMBA
Ludwig van Beethoven (Bonn 1770 - Vienna 1827)
Sonata per pianoforte n. 25 in Sol maggiore, op. 79 “Alla tedesca” (1809)
I. Presto alla tedesca
II. Andante espressivo
III. Vivace
Ludwig van Beethoven (Bonn 1770 - Vienna 1827)
Sonata per pianoforte n. 26 in Mi bemolle maggiore, op. 81a (1810)
I. Das Lebewohl (L'addio) - Adagio, Allegro
II. Die Abwesenheit (L'assenza) - Andante espressivo
III. Das Wiedersehn (Il ritorno) – Vivacissimamente
Ludwig van Beethoven (Bonn 1770 - Vienna 1827)
Sonata per pianoforte n. 27 in mi minore, op. 90 (1814)
I. Mit Lebhaftigkeit und durchaus mit Empfindung und Ausdruck
II. Nicht zu geschwind und seht singbar vorzutragen
Ludwig van Beethoven (Bonn 1770 - Vienna 1827)
Sonata per pianoforte n. 28 in La maggiore, op. 101 (1816)
I. Etwas lebhaft, und mit der innigsten Empfindung. Allegretto ma non troppo
II. Lebhaft, marschmassig. Vivace alla marcia, Adagio, ma non troppo
III. Langsam und sehnsuchtsvoll. Adagio ma non troppo con affetto, tempo del primo pezzo
IV. Geschwind, doch nicht zu sehr und mit Entschlossenheit. Finale. Allegro
Cinque anni dopo la Waldsteinsonate, op.53 e tre dopo l'Appassionata, op.57, Beethoven torna allo strumento cui aveva dedicato queste due pagine incandescenti per pienezza e rigoglio sonoro. Ci torna con passo felpato, nel 1809, l’anno della morte di Haydn, dell'assedio di Vienna e della resa ai francesi, con tre lavori, le opp. 79, 80 e 81 (terminata, quest’ultima, il 30 gennaio 1810). Riconsiderando spirito e scrittura della sonata per pianoforte, il compositore torna ad una dimensione del tutto pianistica, priva di grandi articolazioni formali e di alte ambizioni concettuali, creando lavori dal nuovo tono espressivo e con una nuova impostazione tecnica, lasciandoci comprendere che era ormai in grado di intuire la portata di quella sensibilità romantica che stava venendo a maturazione. La pretesa tecnica di queste pagine è meno esigente ed il tematismo meno stagliato ma l'istinto costruttivo risulta più minuto e pronto a soffermarsi su particolari secondari. Ed il loro tratto complessivo diventa amabile.
Il primo di questi lavori, la Sonata n. 24 in Fa diesis maggiore, op. 78, porta infatti – a conferma di tutto ciò – il sottotitolo “À Thérèse” (Thérèse von Brunsvik) e si apre delicatamente, con una breve idea, quattro sole misure di accordi preludianti, che sfociano nell’Allegro ma non troppo, in forma sonata, caratterizzato da una melodia intimistica, tersa, teneramente cantabile; anche nello sviluppo, contenuto e filigranato, condotto fra il piano ed il mezzoforte, non si rinuncia a questa dimensione espressiva che già lascia intravvedere in prospettiva, nemmeno tanto remota, il mondo di Schumann, se non addirittura quello di Chopin: eleganza, rifinitura, discrezione che non cedono mai il passo negli 8 minuti complessivi di questa Sonata, anche nello squillante Rondò che la chiude e che persegue fluente una leggiadra agilità, irrelata da ondeggianti duine che diverranno a breve una figura ricorrente del pianismo schubertiano.
La Sonata n. 25 in Sol maggiore, op. 79 dura anch’essa 8 minuti. Il curioso sottotitolo “Alla tedesca” si riferisce al carattere popolaresco dei motivi alla base dei suoi tre brevi movimenti, da quello iniziale, pervaso da un'incalzante propulsione ritmica, dai divertiti giochi di inversione del materiale fra le mani e dagli sforzati e dai contrasti dinamici che gli donano una ruvidità quasi umoristica, al Vivace conclusivo, in forma di Rondò, conciso e raffinato nel suo essere quasi un ritratto in miniatura di certe pagine di Haydn che si ispiravano allo stile popolare. In mezzo, il breve Andante, in tre sezioni, cantilena malinconica che si avvale d’un sostegno armonico semplice ed essenziale, tanto che il soprannome di “Sonatina” datole dall'autore pare adattissimo a questi materiali sonori improntati ad una poetica minima, essenziale per l’appunto. Ma non certo in senso riduttivo.
Chiudono la prima parte del concerto i 16 minuti scarsi del terzo pannello di questo trittico, la Sonata n. 26 in Mi bemolle maggiore, op. 81a detta de “Gli addii”. La lettera “a”, va detto subito, è dovuta al fatto che per errore venne pubblicata da un altro editore, come op. 81, successivamente siglata “b”, un’altra composizione (il Sestetto per due corni e quartetto d’archi in Mi bemolle maggiore, del 1795). Più interessante è la motivazione del sottotitolo: l’op. 81a è in effetti l'unica sonata pianistica e una fra le pochissime composizioni del catalogo beethoveniano per le quali l'autore ha previsto una dichiarata idea programmatica. All’inizio s’immaginava che protagonista di questo programma fosse la cosiddetta “immortale amata”, Thérèse von Brunsvik. Invece gli “addii” del sottotitolo sono pensati in riferimento alla partenza da, ed al ritorno a Vienna, dell'Arciduca Rodolfo d'Austria, costretto ad allontanarsi dalla capitale per la guerra austro-francese dell'aprile-ottobre 1809. Il 4 maggio 1809 la Corte lasciò la capitale e Beethoven annotò la data insieme con i primi abbozzi della Sonata, già completi delle parole Abschied, Abwesenheit, Ankunft (congedo, assenza, arrivo), e con il motto Lebewohl (addio, ma letteralmente vivete bene) sui tre bicordi dell'inizio. I francesi lasciarono Vienna il 20 novembre, e il 30 gennaio 1810 (giorno in cui venne terminata la Sonata) si ebbe il ritorno della Corte. Allievo e mecenate di Beethoven, l'Arciduca Rodolfo aveva sottoscritto, nel marzo 1809, con i principi Kinsky e Lobkowitz, un documento nel quale concedeva al compositore una rendita vitalizia, per sollevarlo dalle preoccupazioni materiali, esigendo quale unico corrispettivo la permanenza nei confini dello Stato. Non più dipendente e cortigiano, Beethoven poteva celebrare il suo benefattore in una apposita composizione; ma l'editore eliminò – contro il volere del compositore – ogni riferimento al mecenate (forse per ragioni di diplomazia politica), e tradusse i titoli in francese, suscitando le proteste dell'autore, per il quale «Lebewohl non si dice che ad una persona e col cuore», mentre «“Les adieux” si rivolgono a un'assemblea, a città intere».
E il contenuto musicale di questa Sonata è improntato infatti ad una scelta timbrica contenuta e sobria, priva di scontri epici ed estremamente raffinata nel far derivare tutto il materiale tematico dalle prime tre note, siglate dal Lebewohl che di sé informa, armonicamente e ritmicamente, primo e secondo movimento, dall’agitazione dell’Allegro all’espressività cantabile dell’Andante che riprende la delicatezza di scrittura del primo movimento (oltre a vari spunti ritmici e melodici). Soltanto nel vivace Finale si impone una scrittura brillante ed estrosa che si ripiega su sé stessa proprio alla conclusione, quasi a voler ribadire l'assunto intimistico dell'intera composizione.
Una nuova pausa, durata anch'essa quattro anni – anni in cui vedono la luce le Sinfonie settima ed ottava, il Trio “Arciduca” e la decima Sonata per violino e pianoforte, op. 96 – e, nell'estate del 1814, ecco i 13 minuti della Sonata n. 27 in mi minore, op. 90 nella quale, per la prima volta, Beethoven utilizza unicamente il tedesco per le didascalie delle singole parti, sforzandosi di indicare all'esecutore non solo lo stacco dei tempi ma anche l'approccio interpretativo di ciascun movimento: “con vivacità, ma sempre con sentimento ed espressione”, “non tanto mosso e molto cantabile”. Tenero intimismo e serena cantabilità connotano così i due movimenti di questo lavoro che prepara la strada agli ultimi cinque capolavori del periodo 1816-1822: forse più una scrittura cangiante, essenziale e d’un delicato pianismo caratterizza il primo movimento mentre il secondo vede attribuirsi senza alcun problema i termini di dolcezza ed amabilità messi in luce dai primi recensori.
Ed eccoci infine ai 21 minuti della Sonata n. 28 in La maggiore, op. 101 che procede in buona parte dalle conquiste espressive dell'op. 90 e che infatti, nelle didascalie dei movimenti, accanto alla lingua italiana fa comparire nuovamente quella tedesca. E Beethoven insistette con l'editore perché nel frontespizio apparisse il nuovo termine Hammer oder Hämmer-Klavier, accanto al tradizionale, ed italiano, Piano-Forte. Completata nel 1816, ma risalente nei primi abbozzi al 1813, l'opera è dedicata alla baronessa Dorothea von Ertmann, dal 1803 allieva di Beethoven e prode esecutrice delle sue composizioni. Con questo lavoro si entra nell'ultimo, sublime periodo del pianismo beethoveniano contraddistinto dal superamento delle forme tradizionali e dalla riconquista del contrappunto, dall’utilizzo sonoro e violento delle zone estreme della tastiera e dalla predilezione per sonorità insolite: sotto l'urgenza di una globale risistemazione del cosmo sonoro Beethoven ricostruisce il suo bagaglio espressivo che poi lo accompagnerà negli ultimi cinque capolavori sonatistici, nelle Variazioni su un valzer di Diabelli e negli estremi quartetti.
In questa Sonata si entra subito, senza bussare: “un poco animato, e con il più intimo sentimento”, quasi la musica fosse già cominciata nell’animo di chi suona o ascolta, e fluisca, in 6/8, come una conversazione, un continuo elaborare tematico che a Wagner sembrerà la perfetta sintesi del suo concetto di “melodia indefinita”. A violento contrasto il successivo “vivace, alla marcia", dominato da un implacabile contrappunto condotto sulle zone estreme della tastiera, aspro, tagliente. Seguono poi i tre minuti e mezzo del terzo movimento, “lentamente e nostalgico”, anelito astrale ed essenziale che sembra quasi preludiare all'Allegro finale, “presto, ma non troppo e con risolutezza”, dal piglio brusco che riprende, con una vertiginosa accumulazione concentrazionaria, il tema di partenza della Sonata in un grande fugato, stavolta coerentemente in forma sonata che chiarisce non solo gli assunti tematici del primo movimento ma anche l’ondivago fluire della Marcia e dell'Adagio. L’unità di fondo, fatta di occulti e profondi richiami tematici (e armonici) si proietta in questa composizione ed anche nella successiva op. 106 che sembra ripetere specularmente il cammino di quest'ultimo movimento ed il suo accanito indagare contrappuntistico. È un mondo nuovo quello che sta per spalancarsi nel vortice metallico che chiude questo capolavoro della maturità di Beethoven.
Pierpaolo Zurlo
1770
Il 20 marzo nasce a Lauffen am Necka, un piccolo centro del ducato del Wurttenberg a nord della città di Stoccarda, Johann Christian Friedrich Hölderlin, uno dei più grandi poeti della storia.
Il 27 agosto nasce a Stoccarda, capitale del ducato del Wuerttemberg, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, primo di tre figli di Georg Ludwig Hegel e di Maria Magdalena Fromm, destinato a diventare una figura chiave nel panorama filosofico europeo.
Il 7 aprile di quell’anno nasce a Cookermouth, nella regione del Cumberland inglese, William Wordsworth, uno dei massimi poeti romantici.
1827
Il 5 marzo muore lo scienziato autodidatta Alessandro Volta. Fra le molte sue scoperte, vanno annoverate anche quella, fatta nel 1776, delle proprietà del "gas delle paludi" (che in seguito verrà chiamato Metano) e la formulazione della legge di dilatazione dei gas.,
Il 12 agosto muore a Londra il poeta William Blake, artista incisore di grandissimo talento ed ideatore di una tecnica innovativa per la realizzazione di opere dalla sorprendente forza di immaginazione, nelle quali trasferirà le sue visioni spirituali.
Il 10 settembre muore Ugo Foscolo, poeta profondamente materialista e assertore della natura "meccanica" dell'esistenza che riceve valore dalle “illusioni”, riconducibili in sostanza a patria, poesia, famiglia e amore. Nei Sepolcri giunge alla “sublimazione” di questo processo, scoprendo che “l'illusione delle illusioni” è la stessa poesia civile.