Georg Friedrich Haendel (Halle 1685 - Londra 1759)
Concerto grosso in Sol maggiore Op. 6 N. 1
Georg Friedrich Haendel (Halle 1685 - Londra 1759)
Concerto grosso in Sol maggiore Op. 6 N. 1
Johann Sebastian Bach (Eisenach 1685 - Lipsia 1750)
Concerto in sol minore BWV 1056R (dal Concerto per clavicembalo BWV 1056)
Johann Sebastian Bach (Eisenach 1685 - Lipsia 1750)
Concerto Italiano BWV 971
Giuseppe Tartini (Pirano 1692 – Padova 1770) - Ottorino Respighi (Bologna 1879 - Roma 1936)
Pastorale P86 (1908) dalla Sonata Pastorale di G. Tartini per violoncello piccolo e archi
Giuseppe Tartini (Pirano 1692 – Padova 1770)
Sonata in sol minore
Giuseppe Tartini (Pirano 1692 – Padova 1770)
Concerto in La maggiore
Nessun compositore, o artista in generale, si è mai svegliato una mattina sentendosi “barocco” o “romantico” o “contemporaneo”. Pensarlo sarebbe quasi grottesco, in questi termini, coi quali riconduciamo ansiosamente tutto ad un orizzonte facilmente inquadrabile, catalogando e riducendo nomi a qualifiche che poi non sono che mere aggettivazioni anziché periodi di ricerca e sviluppo altrimenti articolati nel tempo e che dal tempo traggono linfa vitale.
Questo programma ne è testimonianza incontrovertibile: tre autori (tralasciando il Respighi intelligente e sensibile trascrittore), tutti e tre “barocchi”, sostanzialmente coetanei eppure diversi, molto diversi negli esiti creativi. Perché? Perché il Barocco, così come lo intendiamo noi perlomeno, semplicemente non esiste: è una pura convenzione.
Dal 1564, anno della conclusione del Concilio di Trento, la Controriforma limita l’Arte nei contenuti ma concede via libera allo svolazzo e dà un impulso decisivo alla musica, così importante per la nuova liturgia romana. Così come per quella protestante, naturalmente. Due anni dopo Andrea Amati, a Cremona, complici forse le conoscenze portate dall’Oriente nell’ambito dell’espansionismo imperialista della Serenissima – conoscenze fra le quali certamente va annoverata quella dell’Erhu, il violino tradizionale cinese – elabora il primo violino, dotato di quello che poi diventerà il simbolo principe del cosiddetto Barocco, il ricciolo: quel ricciolo di panna che diventerà cifra stilistica barocca e che ritroviamo, pari pari, sulla guglia del campanile di Sant’Ivo alla Sapienza, progettato da Francesco Bernini tra il 1642 ed il 1660.
Tre anni dopo, nel 1567, nasce Monteverdi che farà transitare la musica dal mottetto all’opera, dove il violino avrà – non per nulla – un ruolo determinante.
Quel che venne sprezzantemente definito “barocco” da Charles De Brosse (1709-1777), che nel suo viaggio a Roma – nel 1739-40 – rimase negativamente colpito dalla sovrabbondanza stravagante (teniamo ben presente questo aggettivo) delle strutture architettoniche della città papalina, si afferma come momento specifico di passaggio dalla torsione del ricciolo allo svolazzo: momento fondamentale di questo cambio è la torsione non più manierista ma già pienamente “barocca” dell’Angelo dell’Annunciazione (1605) di Francesco Mochi (1580-1654). Con lui nasce la lingua nuova e dalla linea del Rinascimento si passa alla linea articolata e contorta del Barocco.
La musica arriva dopo un secolo; e questo “ritardo” ha recentemente imbarazzato la musicologia che ha difatti accantonato l'espressione "musica barocca" in favore di locuzioni più generiche, come “600/700 musicale” o “musica dell'età barocca”. Eppure, in ciascuno dei lavori presenti in scaletta possiamo riconoscere gli elementi essenziali sin qui evidenziati. Perché queste composizioni elaborano e sviluppano la materia musicale con immaginazione e con la consapevolezza di voler persuadere il pubblico attraverso un uso misurato ma efficace dell’efflorescenza decorativa, della sorpresa arguta e, non da ultima, della tensione (o forse sarebbe meglio dire “torsione”) armonica. La fantasia diventa espressione, esprimibile ed espressa. Si veda innanzitutto il Concerto per violoncello in la maggiore di Giuseppe Tartini, nel quale la composta impalcatura armonica del primo movimento cede via via spazio alle sortite del solista che ne rimodula costantemente la consolidata certezza dell’impianto tonale; la struggente nostalgia del canto del secondo movimento si stempera nel movimento finale che, col ritorno di trilli e abbellimenti, conduce la partitura a sereno e pacato compimento. Sorte questa che lo accomuna alla Sonata in sol minore che sortisce il medesimo risultato conducendo però stavolta l’ascoltatore in un viaggio che acquisisce maggior velocità man mano che avanza nel tempo, dall’intenso lirismo dell’Adagio iniziale allo slancio ritmato dell’Allegro finale, dove una danza quasi popolaresca, irrelata di volate di note e di trilli, conclude questa partitura in modo convincentemente articolato. A coronamento di questa sezione dedicata a Tartini, la rilettura d’un giovane Ottorino Respighi della Sonata Pastorale dello stesso non può che concentrare l’attenzione dell’ascoltatore sulla bellezza rarefatta dell’eloquio melodico del compositore di Pirano che, in questa trascrizione, acquista maggior densità e un nitore formale che indugia garbatamente sulle bellezze ritmiche e armoniche di questa aggraziata pagina.
Stessa tonalità, sol minore, e simile trattamento dei materiali musicali accomuna la Sonata di Tartini al Concerto in sol minore BWV 1056R di Bach, derivato (la “R” che segue il numero di catalogo sta per “reversed”, per l’appunto) dal suo concerto in fa minore per clavicembalo. Le sorprese che vogliono colpire l’ascoltatore si avvicendano già nel primo movimento: stravagante è l’intervento del solista che interrompe l’esposizione del ritornello orchestrale. O, ancor più marcatamente, il fluire del suo decorso musicale in terzine sul ritmo implacabile degli altri strumenti in 2/4 che crea un’ambiguità testuale che si contrappone alla scintillante bellezza del movimento centrale, più noto nella versione per oboe ed archi come Sinfonia della cantata Ich steh mit einem Fuß im Grabe (BWV 156, per la III domenica dell’Epifania). Pur formalmente vivaldiano nella struttura, con l’alternanza di solo e tutti, il carattere melodico dell’intero lavoro resta comunque preziosamente bachiano: frasi semplici, implacabili nella loro precisione e duttili nel loro potenziale sviluppo armonico che vaga, stra-vagante (letteralmente) nel suo accentuare il ritmo di giga del Presto finale.
Medesima struttura vivaldiana e pari stra-vaganza del materiale caratterizza l’altrimenti noto Concerto nach italienischen Gusto. Originalmente concepito per clavicembalo, e qui presentato in una sagace trascrizione, corona un confronto ventennale con la musica dei grandi maestri che Bach aveva cominciato a studiare e trascrivere quando risiedeva ancora a Weimar: Vivaldi, Albinoni, Marcello si ritrovano qui riuniti, in una manierata stilizzazione che asseconda il suo gusto per la precisione geometrica stimolata però da un’invenzione melodica che fa del motorismo ritmico una sua peculiare risorsa e non un limite. Bach stesso confidava che questo Concerto fosse la più amata fra le sue opere date alla stampa. Linee di canto lunghe e sinuose caratterizzano l’Andante, su un basso ritmicamente regolare ma in costante ed inquieta evoluzione armonica, seguito dal travolgente Presto conclusivo il cui ritmo sembra quasi vagare (in perentorio contrasto con la lineare simmetricità del primo movimento) su diversi piani tonali vivacizzati da continui episodi solistici.
Italiani sono anche, nella struttura, i 12 concerti dell’op.6 di Georg Friedrich Händel: ispirandosi all’analoga op.6 di Arcangelo Corelli (costituita anch’essa da 12 concerti) ne assimilano il modello formale che vede nella contrapposizione fra concertino e tutti l’impulso creativo che ne determina l’eloquio. Il primo Concerto grosso appare segnato, come i restanti undici, dalla sensibilità teatrale del compositore, dalla libertà quasi improvvisativa ed imprevedibile del disegno musicale, dalle incisive idee ritmiche e dalla densità dei “riccioli” di suono, dei voli e delle fioriture che connotano i cinque movimenti. L’animata omofonia dei primi due tempi sostanzialmente in Allegro conduce alla trasparenza trasognata dell’Adagio sino alla densa imitazione fugale del penultimo Allegro che stempera poi la propria apparente seriosità nel ritmo di danza in 6/8 dell’ultimo movimento.
D’altronde questi concerti, composti di getto fra la fine di settembre e la fine di ottobre 1739, con felice slancio creativo, vennero presentati al pubblico londinese nel corso del 1740 negli intervalli fra un atto e l'altro dei grandi oratori eseguiti nel teatro di Lincoln's Inn Fields. Venendo meno, per alterne vicende finanziarie, le fortune teatrali di Händel, gli oratori si erano sostituiti – con minori costi – ai dispendiosi allestimenti delle sue opere: e non è forse un caso che il primo movimento derivi da un abbozzo non portato a conclusione dell’overture alla sua opera Imeneo (1738-1740, rappresentata un’unica volta, al Lincoln's Inn Fields, il 22 novembre del ’40). Quasi un passaggio di testimone, che pare chiudere l’era del teatro per trasferirne gli esiti formali nel campo della musica strumentale.
Pierpaolo Zurlo
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