GUIDA ALL'ASCOLTO | QUARTETTO CASALS

Teatro G. Verdi Trieste, Riva 3 Novembre 1, Trieste
Lunedì 4 dicembre 2023, ore 20:30

Franz Joseph Haydn (Rohrau 1732 - Vienna 1809)
Quartetto in la maggiore op. 20/6

Ludwig van Beethoven (Bonn 1770 - Vienna 1827)
Quartetto n. 16 in fa maggiore op. 135

Dimitrij Shostakovich (San Pietroburgo 1906 - Mosca 1975)
Quartetto n.2 in la maggiore op. 68

NOTE DI SALA

Un saggio del 1978 di Ernst H. Gombrich, che ha fatto scuola e quindi non si dimentica (Il senso dell’ordine, traduzione italiana Einaudi, 1984), per oltre cinquecento pagine tratta di sfondi, cornici, stipiti, fregi, capitelli, frontoni. Insomma, di elementi accessori e decorativi deputati a dare un senso di ordine a spazi e forme e costruzioni che hanno un ordine intrinseco, in quanto forme geometriche per definizione: linee, quadrati, trapezi, cubi, piramidi. Lavorando, almeno in apparenza, sui dettagli, Gombrich perviene a conclusioni globali e tanto più affascinanti perché aprono nuove vie alla percezione dei miracoli dell’arte. Conclusioni che valgono non solo per l’arte visiva ma anche, forse ancor più, per quella musicale. Viene subito in mente l’esperienza barocca, col suo intricare decoro e struttura in modo che l’uno sostenga l’altra e viceversa. Si pensa a Johann Sebastian Bach e alle sue melodie arabescate che d’improvviso diventano nervature polifoniche e portano alla fuga che conclude, in un trionfo di geometria e razionalità. Che è poi un tornare all’antica finzione di organizzare il moto di tante voci distinte che in verità fuggono l’una dall’altra su percorsi che sono tanto più razionali quanto lontani dal reale, apparenti astrazioni che pretendono di spiegare le invenzioni. Geometrie, appunto, utili per appoggiare forme che si evolvono, non si sa (ancora) verso dove. Indispensabili nei momenti di transizione, come conferma il caso del giovane Haydn e della sua prima serie di quartetti per archi davvero importante.

Il sole nascente posto in copertina della prima edizione a stampa (1772) ha dato all'op. 20 di Haydn il bel nome di "Quartetti del sole" e illustra bene il significato vero della raccolta. Si tratta infatti della prima serie in assoluto di "veri" quartetti per archi, maturi e completi nella forma, articolati secondo la struttura classica che sarà definitiva lungo tutta la storia del genere, fino ai nostri giorni (e con l'ovvia eccezione degli ultimi quartetti di Beethoven, e suoi seguaci). Cambia la scrittura. Non più, come nei lavori in stile galante e rococò (cui appartengono anche i precedenti lavori di Haydn), il primo violino canta da solo e gli altri strumenti accompagnano. Il violoncello si libera dal ruolo di puro basso accompagnante e ha spesso melodie che nella regione bassa rispondono al canto sopranile del primo violino. Assumono ruoli autonomi sia la viola che il secondo violino. Non bastano più le eleganti fioriture. Servono relazioni serie, architetture bilanciate, nuovi contenitori formali. Nasce la dialettica musicale, ossia la forma sonata. Si cristallizza l’articolazione in quattro movimenti. Arriva la contaminazione con la musica popolaresca. Cresce l’urgenza di legittimare il nuovo con il ritorno alle tecniche usate dai grandi di medioevo e rinascimento per dare ordine al flusso delle melodie vocali: imitazioni, canoni, fughe. Non a caso, nel giovane Haydn, dalla grande libertà dei primi quartetti della sestina op. 20 si passa all’equilibrio degli ultimi due, entrambi conclusi da una fuga di studiata complessità che corona un percorso completo attraverso le innovazioni da cui si evolverà il quartetto classico.

Scorriamo rapidamente la partitura del sesto e ultimo quartetto della serie, forse il più noto, che per la sua grazia e la sua luminosità sintetizza un po' l’intera raccolta. Il primo movimento ("Allegro di molto e scherzando") è da suonare molto velocemente e con spirito giocoso. Il materiale melodico è, per Haydn, insolitamente ampio. Tre gruppi tematici distinti, non necessariamente correlati fra loro, nel corso dello sviluppo sono integrati da almeno altre due nuove idee. Nel secondo tempo il canto vocale e l’ardente ricerca di espressività del primo violino su accompagnamento minimo è un tipico esempio del nuovo stile preromantico. Col suo squadrato procedere ritmico entro ben definiti segmenti formali, il minuetto contrasta non poco con il libero procedere dei movimenti precedenti. Il trio centrale fa suonare tre strumenti (tace il secondo violino) nel solo registro grave e ottiene un inconsueto effetto di oscurità e tenebre. Nel finale, Haydn costruisce una scintillante fuga su tre temi brevi e ben riconoscibili: il primo attacca inconfondibile con tre note ripetute; il secondo è lento, legato e discendente; il terzo una breve e veloce figurazione. Non ci sono momenti drammatici, il discorso si mantiene sottovoce. La tensione cresce un poco solo verso la fine, quando tutti i soggetti sono riuniti e portati alle quattro battute conclusive all'unisono, con il primo soggetto che svetta.

 

Con il Quartetto op. 135 siamo giunti al numero estremo della lunga serie dei sedici quartetti di Beethoven. Ed è una conclusione imprevista. Chi si aspetta una evidente continuazione degli esperimenti condotti nei precedenti (e abnormi) casi delle op. 127, 130, 131, 132 e Grande fuga op. 133, non può che rimanere sorpreso. L’op. 135 è infatti uno dei lavori più equilibrati e compatti in senso classico mai scritti da Beethoven. Un ritorno all’antico si direbbe, non necessariamente per riprendere slancio per sperimentazioni future, forse solo per ritrovare le radici. Torna la costruzione in quattro movimenti. Pure l’organizzazione interna del materiale sembra voler recuperare antiche simmetrie. Il primo movimento riprende a grandi linee lo schema della “forma sonata” con esposizione, sviluppo e ripresa impostati su due temi principali ben distinti. Nulla però è ovvio e scontato. Sono tanti gli eventi musicali inattesi che punteggiano questo “Allegretto”. La libertà delle soluzioni adottate, il frequente ricorso al contrappunto e soprattutto l’evidente mancanza di contrasto drammatico segnalano in ogni battuta che il concetto stesso di sonata dialettica ha ormai subito un’evoluzione irreversibile.

Il movimento successivo, “Vivace”, è una specie di “Scherzo” fantastico, con strane asimmetrie di ritmo, improvvisi salti del primo violino, cavernosi interventi del violoncello, formule di accompagnamento ostinatamente riproposte, Il tutto è concluso in modo brusco e imprevedibile. Il terzo movimento è uno dei più intimi mai scritti da Beethoven, attento nell’evitare ogni indebito innalzamento del tono di voce. In tutto il movimento ricorre una sola melodia, affidata al primo violino, interrotta da una misteriosa sezione centrale, ripresa con lievi variazioni fino alla poetica conclusione.  

Il finale porta la dicitura «Der schwer gefasste Entschluss (La grave decisione)» subito seguita da una frase a domanda e risposta «Muß es sein? Es muß sein! Es muß sein! (Deve essere? Ebbene sia! Ebbene sia!)» Domanda e risposta sono tradotte in musica in modo singolare. Il movimento inizia con un «Grave» pensoso e problematico, su una cellula tematica ascendente di tre note: è la domanda. Spa­riti i dubbi, giunge la risposta: la cellula tematica della domanda viene rovesciata e, da interrogativa, diventa affermativa, anzi perentoria, quasi imperiosa quando viene ribadita. A questo punto inizia l’«Allegro» vero e proprio, che si snoda con passo convinto e sicuro fino al «pianissimo» della coda conclusiva, che è raccordata al movimento principale proprio dalla ripresa dell’iniziale botta e risposta. Il testo musicale del movimento non lascia dunque trasparire alcun speciale disagio e procede sereno fino alla conclusione, straordinariamente poetica. Il curioso finale cui si è accennato sopra completa nel migliore dei modi un lavoro tutt’altro che minore e mal riuscito. È invece uno dei più incisivi e innovativi quartetti per archi di Beethoven, grazie alla modernità di una scrittura che sarà ampiamente ripresa nell’ancora lontano Novecento, da Schönberg, Bartók, Stravinskij, soprattutto da Šostakovič.

 

Il passaggio da Beethoven (e Haydn) a Šostakovič non è ovviamente lineare. Il compositore sovietico riprende molti fili, ma da lontano. Se sente bene nel suo Secondo quartetto che non è il più eseguito, e dunque uno dei meno conosciuti fra i suoi quindici. Il perché è legato a tanti fattori. Di sicuro gli manca una decisa caratterizzazione storica e biografica. Fu composto rapidamente nell’estate del 1944, in un piccolo centro lontano da Mosca dove Shostakovich si era rifugiato per sfuggire ai disagi della guerra. Come gli era successo nel 1941, quando fu fatto uscire da Leningrado proprio mentre stava componendo la celebrata Settima sinfonia, che della città assediata porta il nome. Nel Secondo quartetto, l’eco della guerra si percepisce un po’ ovunque, però non si lega a passaggi specifici. Come invece succede nella cupa Ottava sinfonia, scritta un anno prima e che qualcuno lega alle epiche vicende di Stalingrado.

Piuttosto, il tono introverso, per non dire tetro, dell’intero quartetto appare come vera mutazione genetica di un autore che aveva iniziato facendo faville (la Prima sinfonia, il balletto L’età dell’oro, l’opera Il naso) e si era trovato all’improvviso aggredito, nel 1936, dalla Pradva (ossia dallo stesso Stalin) per l’opera Lady Macbeth di Mzensk accusata di essere “caos in musica”. Il recupero del favore ufficiale venne subito dopo, con la Quinta sinfonia, ma la ferita non si rimarginò. Il senso del tragico finì col prevalere in tutta la produzione successiva, nonostante i tentativi di alleggerimento della Nona sinfonia (1945). Era un tentativo in tal senso anche il Primo quartetto, in breve e lineare disposizione haydniana, composto nel 1938 a ridosso della trionfale Quinta.

Tutto diverso è invece il Secondo quartetto, da considerare la vera origine dell’intera serie. Perché esibisce un’architettura disposta nei classici quattro movimenti: il primo in forma sonata, il secondo come “Adagio” seguito da uno Scherzo e da un finale come tema con variazioni. Ma in realtà è innovativo, anzi sperimentale nella scrittura. L’iniziale Ouverture supera la dialettica della sonata bi- o tritematica, elaborando minimi incisi subito proposti (e riproposti) con un linguaggio armonico assai elaborato, spesso dissonante, di sicuro in contrasto con le direttive politiche sovietiche di musica rivolta alle masse. La sostanziale mancanza di melodie di ampio respiro nel primo movimento è ampiamente compensata nel secondo, la cui denominazione (Recitativo e Romanza) è un labile indizio della realtà. Abbiamo infatti un flusso continuo di improvvisazioni del solo primo violino, con accenni fugaci a maniere tzigane e più insistiti su figurazioni di ebraico klezmer. Gli altri tre strumenti o tacciono o si limitano a bordoni di sottofondo o a frazioni di corale. Il terzo movimento è una livida danza su un accennato ma inconfondibile passo di valzer, secco e spettrale come avevano insegnato gli espressionisti della seconda scuola di Vienna: Schönberg, Berg, Webern. Il finale è costruito come tema con variazioni. Non è chiaro, tuttavia, se il tema è la breve sequenza di intervalli proposto in apertura o la (finalmente) distesa melodia cantata poi dalla viola. Anche la scansione delle singole variazioni (quattro) non è evidente, data la continuità di un discorso fatto di echi e rimandi, con scaglie melodiche e frammenti ritmici distribuiti su tutti i registri ogni strumento.

È ovvio che le difficoltà esecutive, e soprattutto i problemi di interno equilibrio sonoro, abbiamo influito sulla limitata presenza del Secondo quartetto nel repertorio di molte formazioni. E che le sperimentali soluzioni lessicali sconcertino ascoltatori conservatori. Eppure, il Secondo quartetto è una perfetta chiave di lettura per i tredici successivi. Anche per l’intera ultima produzione di Shostakovich, che nell’intimità della musica da camera trova spazi espressivi più ampi che nella pubblica grandiosità di un genere sinfonico pur ristrutturato e ridotto. Lavorando più che mai su dettagli e particolari, su frammenti e connessioni. Piccole cose, in apparenza, che però danno spessore e prospettive alle grandi architetture nascoste. Danno il senso dell’ordine, appunto, alla maniera di Gombrich.

Enzo Beacco

Curiosando

1762     Al castello di Schönbrunn, dopo aver ammaliato la corte con la sua bravura, un giovanissimo Mozart rompe il rigido protocollo, salta in braccio all’imperatrice Maria Teresa e la bacia, tra lo stupore dei presenti. A Parigi viene fondata la biblioteca de La Sorbonne, ma viene anche bruciato e bandito Il Contratto Sociale di Rousseau.  Dopo 30 anni di lavori, viene completata la Fontana di Trevi, a Roma.

1826      Al conservatorio di Varsavia, Józef Elsner accoglie Chopin tra i suoi allievi. Felix Mendelssohn  pubblica l’ouverture Sogno di una notte di mezza estate, e Muzio Clementi il Gradus ad Parnassum. Michael Faraday crea la naftalina, e Nicéphore Niépce scatta (si fa per dire: 8 ore di esposizione) la prima foto al mondo. Camille Corot dipinge Il ponte a Nami.

1944      Al Met Opera House di New York entra in scena il Jazz, in un memorabile concerto con Louis Amstrong, Benny Goodman, Lionel Hampton e molte altre grandi stelle... ma il 15 Dicembre l’aereo su cui prestava servizio Glenn Miller scompare mente era in missione sul Canale della Manica. Mentre nel Regno Unito di perfeziona il radar, si scopre che anche i pipistrelli lo usano per volare al buio. A Marzo il Vesuvio erutta per l’ultima volta.