GUIDA ALL'ASCOLTO | LUCAS DEBARGUE, DAVID E ALEXANDER CASTRO BALBI

Teatro G. Verdi Trieste, Riva 3 Novembre 1, Trieste
Lunedì 13 novembre 2023, ore 20:30

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Ludwig van Beethoven (Bonn 1770 - Vienna 1827)
Trio per archi e pianoforte n.5 in re maggiore op.70 n.1 “Trio degli spettri”

Pëtr Il'ič Čajkovskij (Votkinsk 1840 - San Pietroburgo 1893)
Trio in la minore per violino, violoncello e pianoforte op.50

NOTE DI SALA

Da sempre riconosciamo a Franz Joseph Haydn, il merito di aver creato non solo la moderna sinfonia per orchestra e il quartetto per archi, ma anche il trio per violino, violoncello e pianoforte, generi tutti dominanti le stagioni musicali classiche, romantiche, moderne che sono venute dopo. Ne ripresero subito il modello tanto Mozart quanto Beethoven. Quest’ultimo, allievo diretto, volle iniziare il catalogo dei suoi lavori a stampa con i tre Trii op. 1 (1795) che scrupolosamente rispettano i canoni del maestro. Seguirono sonate, quartetti e sinfonie in cui Beethoven si allontanò velocemente dai modelli di Haydn. Fra l’altro, trascurò per quasi 15 anni il genere Trio, consentendo la stampa nel 1804 delle giovanili e assai convenzionali Variazioni op. 44.  Pertanto, lo stacco stilistico fra la prima terna di trii (appunto op. 1) e la successiva coppia (op. 70, 1809) è davvero sbalorditivo. La differenza si sente bene.  Soprattutto nel primo Trio, diventato popolarissimo anche grazie al sottotitolo “degli spettri”.

Come per molti altri lavori, quel sottotitolo non è dovuto all’autore ma a commentatori successivi, sempre alla ricerca di appigli extramusicali nella musica beethoveniana. Sono almeno due, e non del tutto indipendenti, le origini della titolazione apocrifa. La prima viene direttamente dalla natura davvero tenebrosa e “spiritata” del movimento centrale. La seconda è dovuta a Martin August Nottebohm, massimo studioso di Beethoven nell’Ottocento, che segnalò che il tema principale di quel “Largo assai ed espressivo” era identico all’ abbozzo di un coro di streghe destinato a far parte di una progettata (e mai realizzata) opera teatrale sul soggetto del Macbeth di Shakespeare.

Comunque stiano le cose e senza dilungarsi citando visionarie interpretazioni di biografi-romanzieri e minuziose letture di filologi scrupolosi, resta il fatto che questo “Largo” è una delle più impressionanti esplorazioni del mondo sonoro mai realizzate da Beethoven, prologo degnissimo delle grandi realizzazioni della sua ultima maturità (e, in pieno Novecento, delle “musiche notturne” di Béla Bartók). Tutto il movimento si sviluppa con una timbrica cupa, scura, che le impervie puntate nel registro acuto ribadiscono e non rischiarano. Il possente effetto drammatico è ottenuto on mezzi relativamente semplici: sfruttamento della fisiologica componente “demoniaca” che appartiene alla tonalità di re minore e uso sistematico di schegge ritmo-melodiche brevissime e pulviscolari, che rimbalzano in continua permutazione. Fondamentale è l’inciso esposto all’inizio dal pianoforte, che è a suo tempo frammento melodico e cellula d’accompagnamento. Mentre il mantenimento dell’uniformità timbrica è assicurato dalle risonanze che nascono dai tremoli del pianoforte nel registro profondo.

Comparati con tanto “Largo”, i due movimenti laterali rischiano di sbiadire, ed è un peccato. L’iniziale “Allegro con brio” vive sul contrasto fra l’aggressivo motto d’esordio e il successivo, lungo nucleo melodico, ricco di spunti tematici ora nuovi, ora derivati dallo stesso motto iniziale. Come di consueto, l’apice del movimento coincide con la sezione di sviluppo, peraltro non molto ampia e fatta di urti fra cellule tematiche ridotte a dimensioni essenziali.

La straordinaria e allucinata fissità del “Largo” trova un corrispettivo dinamico nel finale “Presto”, che ha il taglio e il vigore dei grandi finali beethoveniani. Concepito per linee efficaci e crude, senza concessioni ai gusti salottieri e ai virtuosismi strumentali, ha contribuito come pochi altri lavori alla diffusione del mito dell’eroismo titanico nella musica di Beethoven. Com’è d’altronde giusto, dato che questo Trio si colloca proprio al centro della cosiddetta “seconda maniera” beethoveniana.

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Nadežda von Meck, ricchissima vedova di un magnate delle ferrovie russe, ottima imprenditrice di suo e pure competente musicista, è passata alla storia per essere stata grande mecenate di Anton Rubinstejn, di Claude Debussy e soprattutto di Pëtr Il’ič Čajkovskij di cui finanziò gli studi giovanili e gran parte della carriera, interrompendo le elargizioni solo nel 1890, per ragioni sconosciute, un tre anni prima della quasi contemporanea scomparsa di entrambi (toccò prima a lui). Come ben si sa, lei non volle mai incontrare di persona il musicista. Il loro rapportò restò sempre epistolare. E le tante lettere che si scambiarono sono da sempre fonte preziosa di notizie sulla vita e soprattutto l’arte di Čajkovskij. Il caso del Trio che ascolteremo è infatti emblematico.

Scrisse Čajkovskij il 15 novembre 1880: “Mi chiedete perché non scrivo un Trio? Perdonatemi, cara amica. Mi piacerebbe tanto soddisfare il vostro desiderio, ma è un compito superiore alle mie forze. Sarà un problema del mio apparato uditivo, ma proprio non riesco a sopportare la combinazione del pianoforte con il violino e il violoncello. I loro timbri, ascoltati, semplicemente stridono. Ascoltare trii o anche solo sonate con questi strumenti è per me un vero tormento. È un fatto fisiologico che non so spiegare. Posso solo prenderne atto.”

Ma in quel tempo i desideri della signora von Meck erano ordini per Čajkovskij. Le idee per un nuovo lavoro per violino, violoncello e pianoforte cominciarono a trovar posto sul quaderno di appunti del musicista, sia pure con fatica. La spinta definitiva venne con l’annuncio della morte (20 marzo 1881) di Nikolaj Rubinstejn, fratello di Anton, fondatore e direttore del conservatorio di Mosca (dove Čajkovskij insegnava), eccellente pianista (ma che definì ineseguibile il poi celeberrimo Primo concerto op. 23), punto di riferimento per le correnti cosmopolite russe, quelle filooccidentali, anzi filogermaniche, comunque contrarie al nazionalismo di Musorgskij e del suo gruppo dei “Cinque”.

Čajkovskij pensò di onorare l’amico e maestro dedicandogli proprio un trio, inteso come genere romantico (e germanico) per eccellenza. Prese Schumann come modello di scrittura e per la forma preferì innovare, almeno all’apparenza. Il suo (unico) Trio in la minore op. 50 risulta infatti articolato in soli due movimenti, ma, a ben vedere, si ritrovano facilmente i tre tempi tradizionali.

Non importa se s’intitola Pezzo elegiaco: il primo movimento ha una normale (schumanniana) architettura di forma sonata. C’è un primo tema (“Molto espressivo”) cantato dal violoncello e subito ripreso e sviluppato prima dal violino e dal pianoforte poi. Il secondo motivo ha carattere contrastante, e dunque è ben scandito. Un terzo tema serve a completare l’esposizione, prima che il tutto sia elaborato nell’ampio sviluppo, condotto senza risparmio di mezzi tecnici e chiedendo a tutti gli esecutori uno sforzo virtuosistico che ha pochi corrispondenti nella musica da camera.

La seconda parte del Trio è impostata come tema con variazioni su una melodia popolare russa, graditissima al defunto Rubinstejn, semplice, cantabile, adatta come poche alla sua funzione. Čajkovskij la tratta nel più tradizionale e dei modi. È facile riconoscere nelle sue dodici varianti un preciso omaggio allo stile fin troppo accademico dell’amico scomparso. Il tema resta inalterato nei primi passaggi e ben riconoscibile anche nei successivi. C’è tuttavia un crescendo d’impegno tecnico ed espressivo. La parte del pianoforte si riempie di note, le corde di violino e violoncello sono sempre sotto pressione. La formula della variazione accoglie altri generi musicali, tutti di tradizione romantica e prediletti da Rubinstejn compositore: Valse (sesta variazione), Fuga (ottava), Mazurka (decima) e tante altre varianti delle miniature pianistiche così care a Schumann.

La dodicesima variazione diventa però un vero e proprio movimento nel movimento. Si tratta infatti di un ampio rondò in cui il tema (opportunamente trasformato in “Allegro risoluto e con fuoco”) serve da ritornello. Il virtuosismo esecutivo esplode e, dopo un “Trio” riflessivo, tutto sembra preludere a un finale scintillante. Invece Čajkovskij ci ricorda che si tratta pur sempre di un lavoro in memoriam. L’”Allegro” iniziale diventa prima “Andante” e infine “Lugubre” per scandire il ritorno della melodia fondamentale del primo movimento che violoncello (prima) e violino (poi) cantano “piangendo”.

Il Trio fu completato rapidamente fra novembre 1881 e gennaio 1882. La prima esecuzione ebbe luogo il 30 ottobre 1882. Piacque più al pubblico che alla critica, ma non entusiasmò nessuno. Anche oggi appare di rado in cartellone. Forse è troppo difficile e scomodo per gli esecutori, tropo lungo (almeno 40 minuti) per gli ascoltatori. L’equilibrio fra gli strumenti resta un problema, con il pianoforte che spesso prevarica. La professata idiosincrasia dell’autore per il genere sembra reale. Eppure, questo monumentale Trio resta un perfetto preludio all’ancora lontana macerazione interiore dell’estrema Sinfonia patetica.

Enzo Beacco

Curiosando

1808       Nell’anno in cui il Covent Garden a Londra venne distrutto da un disastroso incendio, il 22 dicembre Beethoven presenta a Vienna in un concerto maratona a scopo benefico moltissime sue opere prime, tra cui le  sinfonie n.5 e n.6.  Negli Stati Uniti viene scoperto un procedimento per rendere sfruttabile il carbone di antracite: è l’inizio della rivoluzione industriale in Pennsylvania. È l’anno in cui nasce Antonio Meucci, e quello in cui muore il creatore del Teatro alla Scala: Giuseppe Piermarini.

1882       A Bayreuth durante il festival estivo va in scena la prima di Parsifal, di Richard Wagner, poco più di un mese dopo la nascita di Igor Stravinsky. Robert Koch scopre il batterio responsabile della tubercolosi, mentre Londra diventa la prima città al mondo ad avere la corrente elettrica, grazie ad una centrale a carbone. A Barcellona inizia la costruzione della Sagrada Famiglia, tuttora incompiuta. Italia, Germania ed Austria-Ungheria firmano la “triplice alleanza”.