GUIDA ALL'ASCOLTO / LISTENING GUIDE | CONCERTO N° 1499B FILIPPO GAMBA

Teatro Verdi Trieste, Riva 3 Novembre 1, Trieste
Martedì 23 maggio 2023, ore 18:30

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Invito al concerto

Sonata n. 29 op. 106 in si bemolle maggiore "Hammerklavier"

NOTE DI SALA / HALL NOTES

(english text below)

La conclusione del nostro ciclo completo delle 32 sonate e le peripezie logistiche che legano Trieste al pianoforte fabbricato dall’inglese Broadwood invitano a ripercorrere le tante vicende che, nel quarantennio a cavallo fra Settecento e Ottocento, legano uno strumento in forte evoluzione al suo mentore più vulcanico. Quando cominciò a mettere le dita sulla tastiera il bambino Ludwig van Beethoven si esercitava su un semplice clavicordo e non si sa con quale tipo di fortepiano abbia debuttato in pubblico (22 marzo 1778). Però, nella nativa Bonn, aveva a disposizione strumenti di varia fabbricazione, compresi quelli del bavarese Johann Andreas Stein tanto apprezzati da Mozart. Di ritorno dal primo viaggio a Vienna, nel 1787 Beethoven stesso visitò la bottega di Stein.  Mantenne ottimi rapporti con il costruttore e relativi eredi, anche dopo il suo definitivo trasferimento nella capitale asburgica (1792) e il conseguente clamoroso successo come improvvisatore e compositore.

Le sue prime venti sonate per pianoforte erano infatti ben compatibili con l’estensione della tastiera e il tocco leggero consentito dalla meccanica di Stein, ma il risultato sonoro non soddisfaceva Beethoven.

La chiave della sua fortuna a Vienna, al di là del valore intrinseco della musica, era il modo con cui si presentava in pubblico. Non c’era in lui il portamento nobile e affettato dei concorrenti diretti di scuola mozartiana e comunque asburgica: l’abate Gelinek, la signora Auernhammer, il boemo Hummel, il viennese Eberl. Scarmigliato e veemente, di regola il giovane barbaro e tedesco Beethoven aggrediva la tastiera con mani fortissime (e dita corte e poco eleganti). Alternando (tanti) rombi tempestosi a (pochi) squarci di sereno riusciva a trasmettere ai suoi ascoltatori aristocratici e borghesi le emozioni del nascente romanticismo. Cominciava anche a rendersi conto della sua incipiente sordità. Serviva maggiore volume di suono, anche per sé stesso. Cercava una dinamica che non potevano dare i flebili fortepiani di Stein. E neppure quelli del maggior concorrente Anton Walter apprezzato anche da Mozart e Haydn. O dei non meno di cento (!) altri fabbricanti viennesi di allora.

Beethoven, dunque, accolse con favore l’omaggio che nel 1803 gli fece il costruttore alsazian-anglo-parigino Sébastien Érard, inviandogli un pianoforte con suono più potente e meccanica più complessa. E proprio in quell’anno, con la Sonata op. 53 Waldstein, inaugurò un nuovo tipo di scrittura, che sfruttava una tastiera più ampia nel registro acuto e assorbiva nuove tecniche esecutive sviluppate dalla scuola inglese che il romano diventato londinese e gran cosmopolita Muzio Clementi promuoveva in tutta Europa, Vienna compresa. Ma neppure la fabbricazione francese soddisfece Beethoven. L’Érard fu presto abbandonato e tornò in auge lo Stein, nel frattempo aggiornato alle nuove tecnologie, grazie alla figlia del fondatore Nannette e a suo marito Andreas Streicher che nel 1794 avevano trasferito la bottega paterna da Augsburg a Vienna. Nacquero le sonate centrali, dall’ Appassionata op. 57 (1804-05) a Les Adieux op. 81a (1809-10).

Forse stimolato da un nuovo modello Stein-Streicher, Beethoven per la prima volta prescrisse sul testo stampato della Sonata n. 28 op. 101 (1815) la destinazione für das Hammerklavier (per tastiera a martelli, ovverosia per pianoforte). La ripropose per la successiva e immensa Sonata op. 106 diventata Hammerklavier per antonomasia. Di questa, le date di composizione sono precise. Il primo movimento fu iniziato nell’autunno del 1817 e il terzo fu completato nella primavera del 1818. Ossia prima dell’arrivo dello strumento regalatogli dal costruttore londinese Broadwood, in affari con Clementi e interessato a sponsorizzando autori illustri per vendere i suoi manufatti anche nel continente.

Quel pianoforte fu imbarcato a Londra il 27 dicembre 1817. Sbarcato a Trieste vi rimase qualche mese e fu portato via carro a Vienna, e lì sottoposto a collaudi e riparazioni per (presunti o reali) danneggiamenti subiti durante il laborioso trasporto. Avidi di carpirne la tecnologia, se ne occuparono gli Streicher-Stein coadiuvati dal consulente e pianista-compositore inglese Cipriani Potter. Beethoven lo ricevette a fine agosto nella sua residenza estiva di Mödling. Non si sa se ne sia servito per scrivere (tardo autunno 1818) il finale della Hammerklavier, l’impervia “Fuga a tre voci con alcune licenze”. Che è compatibile con l’estesa tastiera di uno Streicher-Stein, ma meno con quella del Broadwood, cui mancano cinque tasti acuti. Forse, ma col senno di poi, il maggiore spettro dinamico dello strumento inglese avrebbe dato migliori risultati nel tempestoso primo movimento Allegro e le sue più ovattate sonorità avrebbero esaltato il visionario intimismo dell’Adagio sostenuto. Di sicuro il sensibile peso della meccanica inglese avrebbe invece sofferto il confronto con la leggerezza di tocco dei tasti viennesi nel rendere il velocissimo Scherzo e l’intricata polifonia del finale.

È invece probabile, ma non sicuro, il coinvolgimento del Broadwood nella terna delle ultime sonate op. 109, 110, 111 (1820, 1821, 1822). Si sente (forse) nelle pagine lente e più cantabili, dove la densità degli impasti armonici si alterna alla chiarezza delle trame contrappuntistiche e delle trine decorative. I casi sono tanti, in quello che possiamo definire un fantasioso disordine.

Infatti, se la precedente Sonata op. 106 Hammerklavier, pur nella sua abnorme dimensione, appare assimilabile alla tradizione, le tre ultime hanno ciascuna una ben diversa architettura. La Sonata n. 30 op. 109 pare costituita da frammenti, ripartiti in due pannelli. Il primo pannello è una specie di sonata in miniatura: subito un paio di temi esposti, sviluppati, ripresi; poi un veloce quasi Scherzo con tanto di Trio; chiude un intreccio fra Adagio e Allegro. Il tutto in pochi minuti. Il secondo pannello è un tema con sei variazioni, le ultime come polverizzate, sospese su trilli e arpeggi. La Sonata n. 31 op. 110 è più ampia, con movimenti disposti in modo inconsueto, quasi a specchio deformante. All’iniziale Moderato cantabile risponde un vigoroso Allegro molto. Alla successiva e dolente variante dell’antica accoppiata “preludio e fuga” segue il suo doppio, ora positivo, fin trionfale. Ancora diversa è la forma della Sonata n. 32 op. 111, in soli due movimenti. Una corrusca sequenza di dissonanze introduce un Allegro in classica forma sonata che incorpora un violento contrappunto. Torna, nel secondo movimento, una serie di variazioni, dove gli spunti ritmici pre-jazzistici si sciolgono in vaporosi trilli in quel registro acuto che il sordo Beethoven più faticava a sentire, inutilmente pretendendo dai fortepiani di allora l’aiuto di una dinamica “sforzata”. Che fare dopo questi trilli, queste fughe nel gelo del tintinnio e nel calore del silenzio?

“Un terzo tempo? Una nuova ripresa… dopo questo addio? – Impossibile”, afferma il musicista maledetto Adrian Leverkühn, il ventriloquo di Arnold Schönberg nel romanzo Doktor Faustus (1947) scritto da Thomas Mann con Theodor Wiesengrund Adorno consulente. Ma Beethoven non si rassegnò. Assieme e dopo l’op. 111 continuò a scrivere per altri cinque anni, cose come la Missa solemnis (1819-23), la Nona sinfonia (1822-24), ben cinque quartetti per archi (1824-26). Non dimenticò il pianoforte, cui dedicò ancora la sua più ampia composizione, le Variazioni su un tema di Diabelliop. 120 (1819-23) e le Bagatelle op. 119 (1822) e op. 126 (queste sì estreme, 1826).

Sempre più sordo, lo deluse un Broadwood ben più fragile del previsto e con sonorità tanto limitata da chiedere a Stein un dispositivo capace di convogliare alle orecchie malate il suono lontano del suo strumento favorito. Ne sortì una specie di cupola, inefficiente. Chiese di aggiungere una quarta corda alle tre correnti, senza risultati significativi. Si rivolse pure al concorrente Wilhelm Leschen, altro artigiano del luogo e tedesco di origine. Finì col rifornirsi da un altro ancora, a Conrad Graf, pure immigrato tedesco e ultrarivale di tutti, destinato a diventare il maggior produttore viennese di pianoforti nella prima metà dell’Ottocento, ammirato da Schubert, Schumann, Chopin, Liszt. A sua volta, la bottega di Graf fu rilevata nel 1840 da un nipote di Stein, in quel processo di consolidamento industriale che, in Europa, non risparmiò il glorioso artigianato del pianoforte. Ma è di Graf l’ultimo pianoforte scelto da Beethoven nel 1826, un anno prima di morire.

Enzo Beacco

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The conclusion of our complete cycle of 32 sonatas and the logistic vicissitudes that bind Trieste to the piano manufactured by the English Broadwood invite us to retrace the many events which, in the forty years between the eighteenth and nineteenth centuries, bind an instrument in rapid evolution to its more volcanic. When he began to put his fingers on the keyboard, the child Ludwig van Beethoven was practicing on a simple clavichord and it is not known with what type of fortepiano he made his public debut (March 22, 1778). However, in his native Bonn, he had at his disposal instruments of various manufactures, including those of the Bavarian Johann Andreas Stein so appreciated by Mozart. Returning from his first trip to Vienna, Beethoven himself visited Stein's workshop in 1787. He maintained excellent relations with the builder and his heirs, even after his definitive transfer to the Habsburg capital (1792) and his consequent resounding success as an improviser and composer.

His first twenty piano sonatas were in fact well compatible with the extension of the keyboard and the light touch allowed by Stein's mechanics, but the sound result did not satisfy Beethoven.

The key to his fortune in Vienna, beyond the intrinsic value of the music, was the way he presented himself in public. There was not in him the noble and affected demeanor of the direct competitors of the Mozart school and in any case of the Hapsburg school: the abbot Gelinek, Mrs. Auernhammer, the Bohemian Hummel, the Viennese Eberl. Disheveled and vehement, as a rule the young barbarian and German Beethoven attacked the keyboard with very strong hands (and short and inelegant fingers). Alternating (many) stormy rumbles with (few) glimpses of serene he managed to convey to his aristocratic and bourgeois listeners the emotions of nascent romanticism. He was also beginning to realize his incipient deafness. He needed more volume of sound, even for himself. He was looking for a dynamic that Stein's feeble fortepianos could not provide. And not even those of the closest competitor Anton Walter also appreciated by Mozart and Haydn. Or of the no less than one hundred (!) other Viennese manufacturers of that time.

Beethoven, therefore, welcomed the homage that the Alsatian-Anglo-Parisian builder Sébastien Érard paid him in 1803, sending him a piano with a more powerful sound and more complex mechanics. And just in that year, with the Sonata op. 53 Waldstein, he inaugurated a new type of writing, which exploited a wider keyboard in the high register and absorbed new playing techniques developed by the English school that the Roman turned Londoner and great cosmopolitan Muzio Clementi promoted throughout Europe, including Vienna. But the French manufacture did not satisfy Beethoven either. The Érard was soon abandoned and the Stein made a comeback, in the meantime updated to new technologies, thanks to the founder's daughter Nannette and her husband Andreas Streicher who in 1794 had transferred the father's workshop from Augsburg to Vienna. The central sonatas were born, from the Appassionata op. 57 (1804-05) in Les Adieux op. 81a (1809-10).

Perhaps stimulated by a new Stein-Streicher model, Beethoven for the first time prescribed on the printed text of Sonata No. 28 op. 101 (1815) the destination für das Hammerklavier (for keyboard with hammers, i.e. for piano). He proposed it again for the following and immense Sonata op. 106 which has become the Hammerklavier par excellence. Of this, the dates of composition are precise. The first movement was begun in the autumn of 1817 and the third was completed in the spring of 1818. That is, before the arrival of the instrument given to him by the London builder Broadwood, in business with Clementi and interested in sponsoring illustrious authors to sell his artifacts also in the continent.

That piano was embarked in London on 27 December 1817. Disembarked in Trieste, it remained there for a few months and was taken by cart to Vienna, where it was subjected to tests and repairs due to (presumed or real) damage suffered during the laborious transport. Eager to understand its technology, the Streicher-Steins took care of it, assisted by the English consultant and pianist-composer Cipriani Potter. Beethoven received him in late August at his summer residence in Mödling. It is not known whether he used it to write (late autumn 1818) the finale of the Hammerklavier, the impervious "Fugue for three voices with some licenses". Which is compatible with the extended keyboard of a Streicher-Stein, but less so with that of the Broadwood, which lacks five high keys. Perhaps, but in hindsight, the greater dynamic spectrum of the English instrument would have given better results in the tempestuous Allegro first movement and its more muffled sonorities would have enhanced the visionary intimism of the Adagio sostenuto. Surely the sensitive weight of the English mechanics would instead have suffered in comparison with the lightness of touch of the Viennese keys in rendering the very fast Scherzo and the intricate polyphony of the finale.

On the other hand, it is probable, but not certain, that Broadwood was involved in the trio of the last sonatas op. 109, 110, 111 (1820, 1821, 1822). It is felt (perhaps) in the slow and more singable pages, where the density of the harmonic mixtures alternates with the clarity of the contrapuntal textures and decorative lace. There are many cases, in what we can define as an imaginative disorder.

In fact, if the previous Sonata op. 106 Hammerklavier, despite its abnormal size, appears similar to tradition, the last three each have a very different architecture. The Sonata no. 30 op. 109 appears to consist of fragments, divided into two panels. The first panel is a kind of miniature sonata: immediately a couple of themes exposed, developed, resumed; then a fast quasi-scherzo complete with a trio; closes a plot between Adagio and Allegro. All in a few minutes. The second panel is a theme with six variations, the latter as if pulverized, suspended over trills and arpeggios. The Sonata no. 31 op. 110 is wider, with movements arranged in an unusual way, almost like a distorting mirror. The initial Moderato cantabile is answered by a vigorous Allegro molto. The next and painful variant of the ancient pairing "prelude and fugue" is followed by its double, now positive, triumphal fin. Still different is the form of the Sonata n. 32 op. 111, in just two movements. A flurry of dissonances introduces an Allegro in classical sonata form incorporating violent counterpoint. In the second movement, a series of variations returns, where the pre-jazz rhythmic cues melt into vaporous trills in that high register that the deaf Beethoven found it most difficult to hear, in vain demanding from the fortepianos of the time the help of a "forced" dynamic ”. What to do after these trills, these escapes in the chill of the tinkling and in the warmth of the silence?
“A third time? A new take… after this goodbye? – Impossible”, says the cursed musician Adrian Leverkühn, Arnold Schönberg's ventriloquist in the novel Doktor Faustus (1947) written by Thomas Mann with Theodor Wiesengrund Adorno as consultant. But Beethoven did not resign himself. Together and after the op. 111 he continued to write for another five years, things like the Missa solemnis (1819-23), the Ninth Symphony (1822-24), five string quartets (1824-26). He did not forget the piano, to which he dedicated his largest composition yet, Diabelli's Variations on a Theme, Op. 120 (1819-23) and the Bagatelle op. 119 (1822) and op. 126 (these are extreme, 1826).

More and more deaf, he was disappointed by a Broadwood far more fragile than expected and with such a limited sonority that he asked Stein for a device capable of conveying the distant sound of his favorite instrument to his sick ears. He created a kind of dome, inefficient. He asked to add a fourth string to the three currents, without significant results. He also turned to his competitor Wilhelm Leschen, another local craftsman and German of origin. He ended up getting his supplies from yet another, Conrad Graf, also a German immigrant and everyone's ultra-rival, destined to become the largest Viennese piano manufacturer in the first half of the 19th century, admired by Schubert, Schumann, Chopin, Liszt. In turn, Graf's workshop was taken over in 1840 by a nephew of Stein, in that process of industrial consolidation which, in Europe, did not spare the glorious craftsmanship of the piano. But the last piano chosen by Beethoven in 1826, a year before his death, belongs to Graf.

Enzo Beacco

Curiosando

1818
Nella chiesa di San Nicolò a Obendorf, vicino a Salisburgo, la sera del 24 Dicembre venne cantata per la prima volta Stille Nacht, mentre un paio di mesi prima il fresco d’invenzione chromatische ventilhorn (il corno moderno con le valvole in grado di intonare i semitoni) riceva la prima composizione scritta per lui da Georg Schneider. A Londra esce, nella prima edizione senza l’indicazione del nome della giovane autrice Mary Shelley, uno dei pilastri della letteratura horror: Frankestein, il moderno Prometeo. John Ross, capitano della Royal Navy, parte per la prima di una lunga serie di spedizioni alla ricerca del Passaggio a Nord Over in Canada.