Guida all'Ascolto | I Solisti Veneti e Massimo Mercelli

Teatro G. Verdi Trieste, Riva 3 Novembre 1, Trieste
Lunedì 25 marzo 2024, ore 20:30

 

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Giuseppe Tartini (Pirano 1692 - Padova 1770)

Concerto in Sol Maggiore per flauto traversiere, archi e basso continuo Gro 383

Antonio Vivaldi (Venezia 1678 – Vienna 1741)

Concerto n. 2 in sol minore op. 10 per flauto e orchestra, RV 439 “La Notte”

Giuseppe Tartini (Pirano 1692 - Padova 1770)

Sonata in sol minore per violino e basso continuo “Il Trillo del diavolo”

Antonio Vivaldi (Venezia 1678 – Vienna 1741)

Concerto n. 1 in fa maggiore op. 10 per flauto e orchestra, RV 433 “La Tempesta di Mare”

Antonio Vivaldi (Venezia 1678 – Vienna 1741)

Concerto n. 3 in re maggiore op. 10 per flauto e orchestra, RV 428 “Il Gardellino”

NOTE DI SALA

Continua, in questa stagione, l’esplorazione dei primi decenni che hanno visto il passaggio definitivo dal flauto diritto (o a becco, o dolce, o recorder) di antica memoria al flauto traverso dalle moderne e ben più praticabili risorse. Abbiamo visto, un paio di serate fa, le brillanti applicazioni come solista (in Georg Philipp Telemann) e ancor più accompagnato dal basso continuo o in dialogo con il clavicembalo (con Johann Sebastian Bach). Stasera il flauto traverso si confronterà con un ben più articolato complesso strumentale, un’orchestra d’archi. Che non è una moderna orchestra sinfonica, perché ancora assai ridotta nel numero dei componenti e soprattutto priva delle robuste sezioni di ottoni e di percussioni. Per emergere da organici ben più fitti sarà tuttavia necessario, per il flauto, cambiare ancora una volta connotati, mantenendo il soffio trasversale ma allungando il tubo di risonanza, dunque la distanza tra i fori e il meccanismo che trasmette in movimento delle dita. Il moderno flauto, capace di confrontarsi con le masse orchestrali di Wagner, Strauss, Mahler, Stravinskij verrà brevettato solo nel 1847 dal multiforme bavarese Theobald Boehm, che fu esecutore virtuoso, compositore manierato, teorico di acustica, ottimo artigiano costruttore. Pur con gli inevitabili miglioramenti tecnologici, il suo strumento, con relative modalità d’uso (descritte nel trattato Die Flöte und das Flötenspiel, 1871), è quello tuttora presente in orchestre grandi e piccole. Come già ricordato, nel primo Settecento, per il flauto traverso valevano i vantaggi (e i limiti) riassunti nei Principes de la flûte traversière, ou flûte d’Allemangne, de la flûte à bec ou flûte douce et du hautbois, divisez par traictez (Parigi, 1707) e ribaditi in L’Art de préluder sur la flûte traversière (1719) dal francese Jacques-Martin Hotteterre, detto le Romaine per aver servito a Roma il principe Ruspoli nel 1698-1700, prima di essere 

reclutato come flautista alla corte di Luigi XIV. Quanto, in Hotteterre, la congenita dimestichezza con gli strumenti a fiato (ereditata dal padre) si sia evoluta grazie alla raffinata scuola violinistica romana è ben documentato nei suoi scritti teorico-pratici e nelle eleganti applicazioni in sonate, suite e pezzi vari con uno o più flauti (anche diritti), con o senza viole o altri strumenti pubblicati fra 1707 e 1738.

Stampati e manoscritti, i testi di Hotteterre ebbero larga diffusione in Europa e non sfuggirono ovviamente a Johann Sebastian Bach. Il quale non si limitò valorizzare il flauto traverso nella già citata dimensione da camera, ma lo integrò nell’orchestra del Quinto concerto brandeburghese BVW1050 e della Seconda suite BWV 1067 (salvo lasciare un margine al flauto diritto nel Quarto brandeburghese BWV 1049). In questi casi, il perfezionato flauto traverso integra, dialoga e spesso sostituisce lo svettante violino.

La forma di quei lavori è ovviamente ripresa dai modelli del concerto grosso all’italiana, appresi da Bach, come sappiamo, dalla carta, grazie a un ottimo servizio postale, e senza mai visitare direttamente i maestri nelle capitali Venezia, Firenze, Roma, Napoli. Cosa che invece riuscirono a fare i contemporanei Händel e appunto Hotteterre, presenti a Roma quando, agl’inizi del Settecento, era ancora attivo Arcangelo Corelli, il padre vero della musica strumentale del Settecento, cioè della sonata per violino e del concerto grosso per archi (sempre con basso continuo). Poco dopo, attorno al 1710 a Roma giunse anche il men che ventenne Giuseppe Tartini da Pirano d’Istria, in fuga da Venezia per questioni amorose. Non sorprende che l’ancora acerbo eppur talentuoso violinista Tartini si sia appropriato delle tecniche allora in voga nella capitale papale e abbia composto non solo per il suo strumento d’elezione ma anche ma anche per il moderno flauto traverso. In apertura del programma di stasera troviamo appunto un concerto per flauto che possiamo ascrivere a quel tempo. Del Concerto in Sol maggiore Gro 383 non abbiamo il manoscritto autografo e la datazione è incerta. Considerazioni stilistiche fanno pensare ai primi anni Venti. Il passo con cui attacca il primo movimento rimanda alle pompose ouverture francesi alla maniera di Händel e serve da preparazione per le volate virtuosistiche che subito seguono in totale libertà formale. Il canto espressivo del solista nell’Adagio ha accompagnamento minimale di basso continuo. Più articolato è il finale, in forma di rondò con una bella seconda strofa fatta di ribattiture del flauto figlie della tecnica del violino. Quanti altri concerti per flauto abbia poi composto Tartini, una volta insediatosi (1716) alla Basilica del Santo di Padova non si sa con precisione. Almeno tre sono assai probabili, altri potrebbero essere derivati da alcuni fra i suoi almeno 135 concerti originali per violino. Sappiamo che Johann Joachim Quantz, futuro flautista di Federico II re di Prussia, riconobbe la straordinaria tecnica violinistica di Tartini ascoltandolo a Praga nel 1723. Forse l’ammirazione fu ricambiata. Forse quell’incontro suggerì a Tartini di scrivere (o adattare) un concerto su misura per Federico II, buon flautista di suo. Sicura è invece la paternità della celeberrima Sonata in sol minore Il Trillo del diavolo. Sarebbe molto giovanile (1715) se si tiene per buona la narrazione che la vuole ispirata in sogno dal diavolo in persona e che vedrà Tartini impegnato a cercare inutilmente di riprodurla per tutta la vita lasciando ai posteri il risultato che gli parve meno distante dallo splendore dell’originale. Infatti, la tecnica violinistica e l’architettura della sonata suggeriscono una composizione in età matura (1740), quasi a fine carriera, quando Tartini concentrò i suoi interessi sulle teorie armoniche, sull’astronomia, sulle scienze fisiche in contatto con eruditi italiani (Algarotti), illuministi francesi (d’Alambert), matematici transalpini (Eulero). Nella sonata, il fattore unificante è ovviamente la maestria nella gestione delle risorse strumentali che compare in formulazioni varie e ben distribuite. Il trillo diabolico si accompagna con un sapiente e complicato sistema di note multiple in parte già esplorate da Bach. Troviamo colpi d’arco e soluzioni tecniche che staranno alla base delle future rivoluzioni di Paganini. Il tutto ben distribuito nei quattro distinti movimenti in cui la sonata si articola. Inizia con un ampio spazio per il canto espressivo, a preparare le prime folate di puro virtuosismo. Con un breve momento di riflessione prima della spericolata e finale corsa a ostacoli. Nel fatidico (anche per il flauto traverso) decennio 1710-1720, e sempre con deriva romana, nascono in buona parte i concerti per flauto di Antonio Vivaldi, che sono quattordici, cui vanno aggiunti i quattro composti esplicitamente per flauto diritto. Sono quasi tutti per lo strumento moderno, anche se ora sono spesso trasferiti al vetusto flauto diritto, per malinteso spirito filologico. Secondo Federico Maria Sardelli, l’attento e multivalente curatore degli aggiornamenti al complesso catalogo delle composizioni di Vivaldi, il Concerto RV 433, conosciutissimo anche grazie al sottotitolo La tempesta di mare sarebbe appunto stato composto in quel tempo e potrebbe essere il primo  concerto in assoluto per flauto e orchestra. Poco importata che sia stato pubblicato soltanto nel 1728 dall’editore Le Cène di Amsterdam, assieme ad altri cinque concerti con medesimo organico e raccolti col numero d’opera 10. Ascolteremo stasera i primi tre concerti di quella sestina, che sono anche i più famosi proprio per i sottotitoli che li caratterizzano e distinguono. Come tutti, mantengono netta la distinzione fra solista e accompagnamento, con il gruppo strumentale che sostiene le scorribande virtuosistiche nei movimenti veloci e il canto espressivo del flauto nei movimenti lenti. Il voluto carattere programmatico di 

ciascun lavoro della terna famosa comporta numerose variazioni individuali nell’architettura. Il Concerto in Fa maggiore op. 10 n. 1 La tempesta di Mare si può interpretare come un violento ciclone con al centro un inquieto occhio. Al flauto sono affidati il turbinare dei venti, agli archi l’accavallarsi delle onde nei movimenti laterali. All’uno le speranze di quiete, agli archi il sottostante borbottio minaccioso dell’incombente futuro, nel Lento centrale. Nel Concerto in sol minore op. 10 n. 2 La Notte, per rispettare il suo assunto programmatico, viene rivoluzionata la tradizionale disposizione in tre movimenti. In questo caso, i movimenti diventano sei alternando tre lenti con tre veloci. Gli uni rappresentano il principio del meritato riposo che tarda a venire (Lento) perché ostacolato dai fantasmi (Presto), diventa inquieto (Largo) con l’avvento degli incubi (Presto) e finalmente si rilassa (Largo) in vista del luminoso risveglio (Allegro).

Tornano i canonici tre movimenti Allegro-Cantabile-Allegro nel Concerto in Re maggiore op. 10 n. 3 Il Gardellino il cui titolo da solo illustra i suoi contenuti metamusicali: i gorgheggi e le cantilene del simpatico uccellino come pretesto per mostrare le risorse velocistiche e melodiose di uno strumento versatile e soprattutto nuovo.

Enzo Beacco

Curiosando

1710 È l’anno di nascita di Giovan Battista Pergolesi e a quanto pare della prima esecuzione della Passione secondo San Marco nella versione “pasticciata” di Johann Sebastian Bach, che rielaborò quella scritta probabilmente da Reinhard Kaiser, infilandoci anche arie scritte da Händel:  un vero guaio per il diritto d’autore, se fosse esistito all’epoca per la musica! Ma dall’altra parte della Manica, invece, il parlamento approva proprio il Copyright Act mettendo ordine per le pubblicazioni letterarie.  Jacob Christoph Le Blon, incisore e pittore, inventa il processo di stampa in tricromia (rosso, giallo, blu) a cui in seguito aggiunse il nero creando la moderna stampa a colori.

1715 Alessandro Marcello pubblica il Concerto per Oboe ed Archi in re minor  poi reso famoso dalla trascrizione per clavicembalo di Bach, e Domenico Scarlatti lo Stabat Mater. Il 3 Maggio Londra cade nell’oscurità in pieno giorno a causa dell’unica eclissi totale di sole visibile nel sud dell’Inghilterra negli ultimi 900 anni. A San Pietoburgo ben 45 navi mercantili inglesi ed olandesi sono in coda per poter scaricare le loro merci per giorni, e lo zar Pietro Primo decide che un solo porto non è sufficiente per il suo regno. A Santo Domingo i francesi creano la prima piantagione di caffè dei Caraibi.

1728 A Padova, Giuseppe Tartini apre una scuola per violinisti, mentre Johann David Heinichen nell suo trattato di teoria musicale descrive per la prima volta il “giro delle quinte” ovverosia la progressione armonica delle 12 tonalità. James Bradley, osservando l’aberrazione della luce delle stelle riesce a calcolare, sbagliando di pochissimo, la velocità della luce nell’universo, mentre a fine anno un incendio distrugge un terzo della città di Copenhagen e migliaia di opere scientifiche nella biblioteca dell’università.

1729 Il King’s Theater di Londra assume George Friedric Händel come direttore e manager,  che vi fa debuttare la sua opera Lotario, ed esce la traduzione in inglese dei Principi di Filosofia Naturale di Isaac Newton pubblicati prima solo in latino, cosa che ne restringeva ormai la diffusione. Una nuova tecnica permette di produrre lenti acromatiche, e si osservano per la prima volta al telescopio i colori delle stelle. Negli Stati Uniti un giovanissimo Benjamin Franklin scrive un saggio che descrive la teoria finaziaria alla base delle moderne banconote e la necessità di usarle: è per via di questo studio che negli USA anche il taglio da 1 dollaro è una banconota.