GUIDA ALL'ASCOLTO | DINDO - DE MARIA

Teatro G. Verdi Trieste, Riva 3 Novembre 1, Trieste
Lunedì 20 novembre 2023, ore 20:30

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Alexander von Zemlinsky (Vienna 1871 - New York 1942)
Sonata in La minore   per violoncello e pianoforte

    Ernö Dohnànyi (Pozsony 1877 - New York 1960)
    Sonata in Si bemolle minore op. 8 per violoncello e pianoforte

    Nikolaj Mijaskovskij (Nowy Dwòr Mazowiecki 1881 - Mosca 1950)
    Sonata n°2 in La minore op. 81 per violoncello e pianoforte

    NOTE DI SALA

    Non è poi così vero che il repertorio per violoncello è magro, che si limita all’Ottocento e che vive solo della cinquina di Beethoven, delle coppie di Mendelssohn e Brahms, dei pezzi unici di Chopin e Grieg. Ci sono altre ottime composizioni che coprono l’ultima età romantica e riempiono l’intero Novecento. Che non compaiono nelle correnti stagioni concertistiche perché cauti violoncellisti e organizzatori temono di sfidare la diffidenza dei loro pubblici verso autori minori, o presunti tali. Ecco: il programma proposto stasera da Enrico Dindo va controcorrente, e dunque ha grande interesse.

    Anche se nessuno degli autori presentati è davvero popolare, le loro sonate sono il frutto maturo di una lunga tradizione che trova le radici nelle due sonate per violoncello e pianoforte di Brahms, l’op. 39 (1864) e soprattutto l’op. 99 (1886). In entrambi i casi la scrittura densa e armonicamente complessa sviluppa il cruciale primo movimento non come dialettica fra ben definite melodie contrastanti ma come intreccio di cellule elementari. Il superamento della classica forma sonata consente così un nuovo equilibrio fra i diversi timbri dei due strumenti, superando il problema di un violoncello che sa cantare nel registro medio grave ma non ha quell’estensione nel registro acuto che consente al violino di svettare e tamponare l’invadenza del pianoforte.

    Il modello brahmsiano è subito ripreso dagli amici e colleghi Robert Fuchs e Heinrich von Herzogenberg autori, rispettivamente nel 1878 e 1886, di pregevoli (e dimenticate) sonate per quella difficile combinazione strumentale. Anche il coetaneo Karl Goldmark, eclettico e (al tempo, ma ora non più) popolarissimo concittadino viennese di Brahms, porta suo contributo con la Sonata op. 39. Ancora diciassettenne, Richard Strauss mostra il suo talento con la Sonata op. 6 (1881) ancora oggi eseguita e apprezzata.

    E non manca il giovane (ventidue anni) Alexander von Zemlinsky, allievo del sopra citato Fuchs e già allora affermato autore di un paio di sinfonie e di musica da camera apprezzata perfino da Brahms. La sua Sonata per violoncello ha data 1894 e inizia in modo tutto brahmsiano: un semplice inciso distribuito fra i due strumenti genera l’intero materiale melodico, che si trasforma nel canto del violoncello con il pianoforte che integra e garantisce la continuità del disegno complessivo.  L’indicazione Mit Leidenschaft (Con passione) serve ad accentuare una componente emotiva che deve prevalere sulla dialettica tematica propria della classica e passata forma sonata. Appassionato è pure il secondo movimento, più lirico e ricco di melodie in dialogo fra i due strumenti, con un focoso episodio centrale e una ripresa estatica chiusa perdendosi in un vaporoso “pianissimo”.  Al solo pianoforte è affidato l’attacco del finale “Allegretto”, ripreso quasi in contrappunto dal violoncello che subito canta un breve ritornello per separare le strofe poi scandite da entrambi.  Prevale lo spirito dello Scherzo leggero, piuttosto che l’affermativo costruttivismo prescritto per i finali dalle regole della sonata classica.

    Eseguita per la prima volta il 23 aprile a Vienna dal dedicatario e amico violoncellista Friedrich Buxbaum, questa sonata letteralmente sparì. Forse la distrusse l’autore, insoddisfatto. Più probabilmente Zemlinsky la perse, travolto com’era da un turbinoso cumulo di impegni come compositore, direttore d’orchestra, docente, uomo di mondo. Si apprestava a scrivere la sua terza sinfonia, il suo quintetto con pianoforte (1896) meriterà i complimenti di Brahms, la prima opera (Sarema, 1897) coglierà un buon successo a Monaco di Baviera e la seconda (Es war einmal, 1900) sarà diretta da Gustav Mahler all’opera di Vienna. A ventinove anni sarà nominato direttore musicale del Carltheater di Vienna. Insegnerà contrappunto all’amico Arnold Schönberg e alla bella Alma Schindler (con la quale si fidanzerà salvo essere abbandonato quando lei accetterà di sposare Mahler). Continuerà a essere stimato negli anni come direttore della Volksoper di Vienna (1906-11). del Neues Deutsches Theater di Praga (1911-27), della Kroll Oper di Berlino (1927-30).

    Di quegli anni sono i suoi lavori maggiori: la Lyrische Symphonie (1922), le opere Eine florentinische Tragödie (1917) e Der Zwerg  (1921). Non sono stati sufficienti a far emergere Zemlinsky fra i grandi compositori del Novecento. Non gli ha giovato l’equidistanza fra lo sperimentalismo dodecafonico di Schönberg, l’eclettismo di Stravinskij, l’astuto continuismo di Richard Strauss. Costretto a lasciare l’Europa in preda al nazismo, non avrà fortuna negli Stati Uniti.

    Nel nuovo millennio, forse, il vento è cambiato. La musica di Zemlinsky sta tornando in teatro e sala concerto. È stata perfino trovata una copia della giovanilissima sonata per violoncello, fra le carte del pianista inglese Peter Wallfisch ereditate dal figlio violoncellista Raphael, che l’ha subito resa pubblica, registrata, riportata in repertorio.

     

    Anche l’ungherese Ernō Dohnányi non ha avuto nel Novecento la fortuna che pure si meritava. I colleghi e amici Béla Bartók e Zoltan Kodály lo hanno sovrastato nel favore di pubblico e critica. Fra l’altro, proprio con loro, nel 1919, durante la breve esperienza della repubblica democratica di Károlyi, aveva proposto una modernizzazione della didattica nell’Accademia Musicale di Budapest della quale era diventato direttore. Dopo il colpo di stato di Béla Kun, la conseguente reazione autoritaria lo costrinse alle dimissioni per non avere voluto licenziare Kodály, sospetto di simpatie sinistrorse. Mantenne l’insegnamento.  Era stato allievo (assieme a Bartók) di István Thomán prima e di Eugen d’Albert poi, entrambi pupilli di Liszt. Dalla sua scuola uscirono artisti del calibro di Geza Anda, Annie Fischer, Georg Solti. Si dedicò con grande successo al concertismo pianistico: si impose negli anni Venti come eccellente interprete da Mozart e Beethoven. A capo dell’Orchestra Filarmonica di Budapest, sostenne la musica moderna di Bartók pur in un ambiente assai conservatore. Richiamato anche alla direzione dell’Accademia nel 1931, mantenne gli incarichi fino a guerra inoltrata resistendo alle pressioni dei nazisti che esigevano epurazioni dalla scuola e dall’orchestra.  

    Come già Zemlinsky, nel 1949 Dohnányi si rifugiò negli Stati Uniti, trovando un posto d’insegnante all’università della Florida a Tallahassee.  Continuò a comporre accogliendo ora anche motivi della tradizione popolare americana. Però il grande salto accanto agli storici amici Bartók e Kodály è stato (finora) negato a Dohnányi perché la gran mole della sua produzione (teatrale, sinfonica, da camera, pianistica) è sempre rimasta a metà strada fra il rispetto della tradizione romantica austro-germanica e l’abbraccio creativo con mondo del canto popolare.

    Vale per i lavori più maturi come per quelli giovanili, come la Sonata che ascolteremo, composta nel 1899, a 22 anni, fresco del completamento degli studi all’Accademia e reduce da trionfali tournée come giovane pianista in Europa e America. Sono infatti popolareggianti tutti i motivi principali della sonata, soprattutto quello finale che serve da tema per nove variazioni: una bela canzone, però ricondotta all’armonia classica, evitando di spingersi nel mondo penta-, esa-, politonale e nei ritmi sghembi che Bartók e Kodály avrebbero acquisito dalla musica extra-colta diffusa nelle terre danubiane. L’approccio è ancora quello ottocentesco delle rapsodie ungheresi di Liszt e delle danze ungheresi di Brahms, arricchite delle complessità tecniche di fine secolo.

    La scrittura pianistica è infatti di grande difficoltà. Il violoncello è impegnato in scomodi registri estremi: nel basso per sostenere i guizzi, nell’acuto per emergere dai blocchi accordali dell’invasivo collega. La formula delle variazioni permette di esibire le tante soluzioni che sa trovare il giovane Dohnányi, abilissimo pianista e figlio di un buon violoncellista dilettante. Il momento forse migliore sta nella settima variazione, spumeggiante e leggera, quasi mendelssohniana eco del cristallino secondo movimento (Scherzo). La natura riassuntiva di questo finale si manifesta pure nelle variazioni cantabili, che riprendono il lirismo del breve terzo movimento (“Adagio ma non troppo”). Su un articolato meccanismo di correlazioni interne è impostato pure il primo movimento: cinque battute di misteriosa introduzione e poi un secco inciso discendente che serve a creare e coordinare l’ampia architettura successiva. Come nel Quintetto op. 35 di Brahms. Il quale Brahms, ormai anziano, un paio di anni prima, del Quintetto per pianoforte e archi op. 1 dell’esordiente diciannovenne Dohnányi, affermò “non avrei potuto scriverlo meglio”.

     

    Quasi 50 anni separano la seconda sonata di Mjaskovskij dalla prima di Dohnányi. Eppure, così poco sembra cambiare. Nulla nel suono. Qualcosa cambia in melodia e armonia: entrambe di sicuro sono assai legate alla tradizione tonale, ma è più audace quella del ventenne ungherese, più cauta quella del settantenne russo. La cosa si spiega, in parte, considerando le condizioni in cui si è trovato Mjaskovskij. La sua sonata nasce infatti fra 1948 e 1949, in piena guerra fredda, nel tempo del nuovo giro di vite promosso da Andrej Zhdanov, plenipotenziario di Stalin per la politica culturale sovietica e non solo. Assieme a Kachaturjan, Prokof’ev, Šostakovic e numerosi altri, Mjaskovskij è accusato di formalismi e invitato a scrivere musica adatta al popolo. E, di tutti questi accusati, è di sicuro quello che mai ha ceduto allo sperimentalismo e meno si è allontano dai principi del realismo socialista nella sua lunga carriera con copiosa produzione: ben 27 sinfonie e tanto altro per orchestra, 13 quartetti per archi, 9 sonate e numerosi pezzi vari per pianoforte, cantate, liriche vocali.

    Quanto poi Mjaskovskij si sia conformato alla nuova direttiva è chiaro all’ascolto di questa sua ultima sonata. L’architettura è in tradizionali tre movimenti accomunati dal costante tono di canzone popolare, folkloristico più che folklorico. Le melodie sono sempre eleganti e scorrevoli, in particolare nel secondo movimento, assai cantabile eppure l’unico che ad aver qualche tensione drammatica. Nell’iniziale “Allegro moderato” non ci sono artifici formali nell’alternarsi quasi mozartiano fra primo e secondo tema, l’uno lirico l’altro più incisivo, in pacifica coabitazione. Il finale “Allegro con spirito” suggerisce una patriottica festa nazional-popolare. Come prescritto dalla direttiva di Zhdanov (peraltro da poco defunto in un clima di sospetti e tradimenti).

    Proprio per la sua natura piacevole e non problematica, la sonata ha grande successo fin dalla prima esecuzione, a Mosca, il 5 marzo 1949, affidata al già famoso violoncellista Mstislav Rostropovič con l’autore al pianoforte. Entra subito nel repertorio dei maggiori solisti. Lo stesso Rostropovič la ripresenta più volte, anche in coppia con Sviatoslav Richter. È assai più nota della prima sonata per il medesimo organico scritta da Mjaskovskij nel 1911, a suo modo più ardita in quanto figlia del simbolismo presovietico di Skrjabin e dell’ultimo romanticismo di Rachmaninov. Il quale Rachmaninov aveva inaugurato il Novecento violoncellistico con la sua bella sonata op. 19 datatal 1901. E a fare del Novecento il campione di quel genere di sonata hanno contribuito, fra tanti altri, anche grossi calibri come Kodály (1907), Debussy (1915), Fauré (1917 e 1921), Hindemith (1919 e 1948), Weill (1920), Honegger (1920), Barber (1932), Carter (1948), Poulenc (1948), Prokof’ev (1949), Ligeti (1953), Britten (1961), Kabalevsky (1962), Schnittke (1978).

    Insomma, è proprio falso sostenere che il repertorio per violoncello e pianoforte sia magro e confinato all’Ottocento. E che non ci sia spazio per soddisfare le curiosità del pubblico.

    Enzo Beacco

    Curiosando

    1894       A Parigi prima esecuzione di Prélude à l'après-midi d'un faune di Debussy, mentre un giovano tenore di nome Enrico Caruso debutta al Teatro Nuovo di Napoli in uno opera ora dimenticata: L’amico Francesco. Nell’industria tessile fa la sua comparsa il rayon, la “seta sintetica”. Paul Gauguin, ancora in Francia, dipinge “i contadini bretoni”, mentre a Londra viene inaugurato l’iconico Tower Bridge.

    1899       Se al St. James all di Londra le Enigma Variations di Elgar ottengono un’ottima accoglienza, altrettanto non accade a Parigi per la Sherazade di Ravel, che decise di non pubblicarla e non la eseguì mai più. I fisici Rutherford e Bequerel iniziano a scoprire le proprietà dell’Uranio ed altre sostanze radiottive. Rainer Maria Rilke, ancora studente, incontra Leone Tolstoi, che lo convise a pubblicare i suoi lavori.

    1949       Gorni Kramer insieme a Garinei e Giovannini danno inizio alla commedia musicale italiana moderna, ispirandosi ai musical d’oltre oceano . Un razzo V2 riadattato porta a bordo il primo essere vivente: una scimietta… il lancio non fini bene. La radiodatazione con il carbonio permette per la prima volta di avere dati certi nella paleontologia. Pablo Picasso crea Dove, la colomba della pace che diventerà simbolo universale.